“Le dico buongiorno, nonostante l’orario: qui siamo a metà giornata. E non mi chieda quanti ordini ho ricevuto oggi, non riusciamo più a contarli”. Maurizio Borsari riesce a rispondere al telefono solo dopo il tramonto. Nella sua azienda, da un paio di settimane, non esistono turni: mentre tutta Italia è in quarantena, c’è qualcuno che lavora a ritmo forzato per fornire “a chi sta in trincea, ai nostri medici e infermieri”, i mezzi per salvare vite umane.

Alla Dimar di Mirandola, nel modenese, questo concetto si traduce con un casco da ventilazione non invasiva che consente di sostenere la respirazione dei pazienti con una grave insufficienza respiratoria: “In questo modo si riesce a ridurre fortemente la necessità di un ricovero in terapia intensiva. E c’è anche un altro aspetto, l’aria che entra ed esce è filtrata, così si può lavorare senza rischio di contagio”. Il brevetto è dello stesso Borsari che in 20 anni ha sviluppato la produzione di questo casco e ora è l’unico a produrlo in Italia insieme alla vicina Intersurgical: due ingranaggi di un distretto, quello biomedicale di Mirandola, che conta quasi cento aziende per un giro d’affari intorno al miliardo di euro. “Gli ospedali sono alla disperata ricerca di materiale e qualche struttura manda le proprie ambulanze a ritirarlo”. L’azienda non è più in grado di organizzare la spedizione e i corrieri “possono metterci anche un paio di giorni, ma in questa situazione poche ore possono fare la differenza”. Se un ospedale non riesce a mandare proprio personale, si muovono gli uomini della Protezione civile o le forze dell’ordine: “La catena dei rifornimenti sta funzionando, ma per noi lo sforzo è davvero enorme. In condizioni normali produciamo 200 caschi al giorno, ora ne stiamo facendo uscire il triplo”.

Ecco il tassello che completa la macchina dell’emergenza sanitaria che si sta mettendo in moto in queste ore: dispositivi che fino a pochi giorni prima servivano solo a una piccola quota di pazienti ora sono diventati strumenti di prima necessità negli ospedali. Per questo la Consip ha dato il via libera a una gara d’appalto accelerata che porterà in dote alla Protezione civile oltre 1.800 ventilatori. Tra le aziende coinvolte c’è anche la Siare di Crespellano, in provincia di Bologna, che produce macchine respiratorie per i reparti di terapia intensiva e si è aggiudicata la commessa per la fornitura di 500 pezzi al mese, fino a luglio. La produzione è stata contingentata dallo Stato italiano, e gli ordini già pronti a partire verso l’estero sono stati bloccati: “Le nostre macchine – spiega il fondatore, Giuseppe Preziosa – sostituiscono l’attività dei polmoni, che sono la prima cosa ad andare in crisi in questi casi. Ci sono altre 80 imprese, tutte italiane, che lavorano per noi e che in questi giorni stanno producendo anche di notte per non farci mancare il materiale necessario”. La Siare, di fatto, si è trovata nelle condizioni di dover quadruplicare la produzione attuale: per farlo il Governo invierà nei prossimi giorni 25 tecnici montatori militari che, dopo due giorni di formazione, affiancheranno i 30 dipendenti dell’azienda. Intanto tutte le 320 macchine già pronte e originariamente destinate all’estero sono state deviate: 90 in Lombardia, 174 per l’Emilia-Romagna, 56 in Piemonte, sulla base delle indicazioni ricevute dalle autorità sanitarie. In Veneto intanto il gruppo Malvestio, produttore di letti ospedalieri per le terapie intensive, lavora senza sosta anche nei fine settimana per garantire le forniture straordinarie che servono al servizio sanitario.

Ma negli ospedali italiani, per vincere la battaglia contro il Coronavirus, c’è bisogno di molto altro: “Dai monitor per gestire gli elettrocardiogrammi ai programmi di gasanalisi per verificare lo stato di ossigenazione del sangue – spiega il presidente di Confindustria dispositivi medici, Massimiliano Boggetti – Le terapie intensive hanno un disperato bisogno di strumenti per misurare costantemente lo stato di salute del paziente”. E se si vuole contenere la diffusione del virus, è l’opinione che inizia a farsi largo tra gli esperti, è necessario aumentare lo sforzo per far emergere i casi di contagio asintomatico: “Per farlo servono strumenti di screening, dai cosiddetti tamponi per la raccolta del materiale biologico a test più sofisticati che permettono di monitorare il livello di risposta immunitaria del paziente”.

Contenere la diffusione del virus è una regola che vale prima di tutto all’interno degli ospedali: nelle ultime ore centinaia di medici e infermieri sono stati costretti alla quarantena, un fattore che amplifica la carenza di personale. “C’è una richiesta fortissima di tutti i dispositivi di protezione individuale – continua Boggetti -, dalle classiche mascherine chirurgiche fino a quelle del tipo ffp3, che permettono l’isolamento completo della persona sana in un contesto di ammalati. Sono indispensabili anche gli occhiali di protezione e le tute di contenimento, che creano una barriera fisica per evitare che il virus si attacchi a vestiti e camici e venga portato all’esterno”. L’industria biomedicale italiana, in queste ore, sta lavorando a strettissimo contatto con il Ministero della Salute e la Protezione civile: “Si è deciso di mettere a sistema la produzione e, dove possibile, di riconvertire il ciclo del lavoro per far fronte a queste richieste enormi. Abbiamo deciso di privilegiare le istituzioni italiane nella fornitura del materiale e di garantire una calmierazione dei prezzi. Il settore è al massimo della capacità produttiva, non è semplice, ma le nostre aziende ce le stanno mettendo tutta”.

Come alla Dimar, dove in attesa di ristrutturarsi su questi numeri e formare nuovo personale in tempi record, i 30 dipendenti fanno gli straordinari: “Siamo sempre tutti al lavoro, stanchi ma volenterosi, perché ci rendiamo conto dell’importanza del servizio”, dice Maurizio Borsari. “Non è un bel modo di lavorare, ma non mi posso tirare indietro. Ho la responsabilità di poter fornire uno strumento che può essere utile a salvare delle vite, non è più una questione di fatturato”.

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