I racconti degli orrori libici che superano i confini del Paese nord africano si arricchiscono di un nuovo capitolo. A pubblicarlo è il quotidiano della Cei, Avvenire, che in un articolo pubblicato domenica 5 gennaio riferisce di un video che riprende le torture inflitte a una giovane eritrea appesa a testa in giù e bastonata a Bani Walid, centro di detenzione informale gestito dalle milizie libiche. Il “video choc è stato spedito via smartphone ai familiari della sventurata che devono trovare i soldi per riscattarla e salvarle la vita”, scrive ancora il giornale dei vescovi pubblicando alcuni frame del filmato. E ricordando che la vita della prigioniera vale 12.500 dollari. E che a Bani Walid in due mesi sono morti 6 detenuti, l’ultimo dei quali, un eritreo, è deceduto nei giorni scorsi “per le torture inferte con bastone, coltello e scariche elettriche perché non poteva pagare”.

Il centro, ricorda ancora Avvenire, “in base alle testimonianze raccolte anche dall’avvocato italiano stanziato a Londra Giulia Tranchina, è un grande serbatoio di carne umana proveniente da ogni parte dell’Africa, dove i prigionieri vengono separati per nazionalità”. E il prezzo del riscatto viene stabilito in base alla provenienza dei prigionieri: “Gli africani del Corno valgono di più per i trafficanti perché somali ed eritrei hanno spesso parenti in occidente che sentono molto i vincoli familiari e pagano. Tre mesi fa, i prigionieri eritrei valevano 10mila dollari, oggi 2.500 dollari in più perché alla borsa della morte la quotazione di chi fugge e viene catturato o di chi prolunga la permanenza per insolvenza e viene più volte rivenduto, sale”. E intanto nei centri ufficiali, dove i detenuti sarebbero sotto “la protezione” delle autorità di Tripoli pagata dall’Ue e dall’Italia, “la situazione sta precipitando con cibo scarso, nessuna assistenza medica, corruzione”.

L’Unhcr ha contato 40mila rifugiati e richiedenti asilo in Libia, “6mila dei quali sono rinchiusi nel sistema formato dai 12 centri di detenzione ufficiali, il resto in centri come Bani Walid o in strada. In tutto, stima il “Global detention project“, vi sarebbero 33 galere. Vi sono anche detenuti soprattutto africani non registrati la cui stima è impossibile”. Il quotidiano della Cei sottolinea poi che “quello che accade in questo bazar di esseri umani è noto alle autorità libiche, ai governi europei e all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole fare niente. Secondo le testimonianze di alcuni prigionieri addirittura i poliziotti libici in divisa entrano in alcune costruzioni a comprare detenuti africani per farli lavorare nei campi o nei cantieri come schiavi”.

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