Quarantanove giornalisti sono stati uccisi in tutto il mondo nel 2019, 14 solamente in America Latina: secondo il nuovo rapporto di Reporters sans frontières è il numero più basso degli ultimi 16 anni, nonostante ciò “il giornalismo rimane una professione pericolosa”. Aumentano invece i giornalisti in carcere: 389, il 12% in più rispetto allo scorso anno. Altri 57 sono tenuti in ostaggio. Il Messico è il Paese più pericoloso, con 10 giornalisti scomparsi in un anno: “L’America Latina, con un totale di 14 giornalisti uccisi in tutto il continente, è diventata mortale come il Medioriente”, afferma Christophe Deloire, segretario generale di Rsf.

“Il giornalismo rimane una professione pericolosa”, sottolinea l’organizzazione, che dal 1995 monitora la libertà di stampa nel mondo. Più della metà sono stati uccisi in zone di pace e oltre il 60% dichiaratamente per la loro professione. Quest’anno nessun operatore dei media ha perso la vita all’estero, sono tutti stati uccisi nel proprio Paese. Il rapporto pone particolare attenzione alle zone di conflitto in Yemen, Siria e Afghanistan, ma secondo il segretario Deloire, l’America Latina sta diventando pericolosa come le zone di guerra: 14 cronisti uccisi, di cui 10 solo in Messico. Ad agosto, la settimana più tragica: nel giro di pochi giorni sono stati trovati morti Jorge Ruiz Vazquez, Edgar Alberto Nava e Rogelio Barragan, che lavoravano in diverse testate.
Il numero globale, però, è decisamente inferiore a quello dello scorso anno: il 2018 è stato l’anno nero per il giornalismo, con 80 vittime in tutto il mondo. Al contrario, quest’anno sono aumentati i giornalisti in carcere, il 12% in più rispetto al 2018. Dei 389 cronisti privati della libertà, quasi la metà sono detenuti in tre paesi: Cina, Egitto e Arabia Saudita. Inoltre, il rapporto ricorda che 57 giornalisti sono tenuti in ostaggio, principalmente in Siria, Yemen, Iraq e Ucraina, segnalata da anni per il clima di intimidazioni e minacce alla stampa.

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