La guerra di Erdogan e il dramma curdo hanno riportato per qualche giorno nell’agenda pubblica il tema della responsabilità dei produttori e venditori di armi negli Stati democratici. Che poi il governo passi dalle parole ai fatti, bloccando davvero le nostre esportazioni di armi verso la Turchia, è tutto da dimostrare. Gli escamotage in questo settore sono all’ordine del giorno, come finalmente si spiega anche sulle prime pagine, vedi il dataroom di Milena Gabanelli (Corriere della Sera, 15 ottobre): “Export italiano di armi, dove e perché violiamo le leggi italiane e dell’Onu”.

Il caso Ankara è solo la punta di un iceberg. Nel 2019 il comparto della difesa in Italia generava investimenti per l’1,21% del Pil, dati di previsione, ma ci siamo impegnati con gli americani per salire al 2 per cento. Le imprese battono cassa per la ricerca e l’innovazione, sventolando, tra l’altro, il sempre maggiore contributo degli armamenti al nostro export, 9 miliardi circa.

Qatar, Pakistan e Turchia sono i primi tre clienti, e il mercato mediorientale è in netta crescita. Sullo sfondo ci sono anche i 13 miliardi di euro che nel programma di bilancio europeo 2021-27 andranno all’European Defence Fund (Edf), uno dei bottini più grossi che avrebbe gestito la super-commissaria francese Sylvie Goulard, macroniana di ferro; ma il Parlamento Ue ha bocciato la nomina, e su queste deleghe sta traballando pure Ursula Van der Leyen. Inoltre siamo nel pieno di un riarmo mondiale, come ha spiegato bene il dossier di Nicola Borzi sui fabbricanti d’armi (Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre).

Le attività pubbliche nel ramo difesa sono riunite in un’azienda campione nazionale che alla fine del 2016 si è sfacciatamente ribattezzata con il nome del Genio italiano, Leonardo. E’ tra le prime dieci al mondo nel suo settore, occupa 45mila persone, costruisce roba sofisticata come elicotteri da guerra (“micidiali”, “guidano l’offensiva di Erdogan in Siria“, titolo a scatola su la Repubblica il 16 ottobre) e sistemi di comunicazione persino per la Cia.

Poco prima di cambiar nome, Leonardo-Finmeccanica ha subito lo smacco dell’uscita dal libro soci, per motivi etici, del fondo della Banca centrale della Norvegia, dopo alcuni scandali internazionali e un report di Corruption Watch che segnalavano una gestione “likely to be involved in corruption again“, cioè incline alle mazzette. Per mettere un argine alle figuracce, il governo Gentiloni ha nominato – accanto al presidente riconfermato, che è l’ex Sottosegretario alla sicurezza e già capo della Polizia, Giovanni De Gennaro – un amministratore delegato di peso come l’ex banchiere Alessandro Profumo. Il super-poliziotto ora si fa sentire pubblicamente almeno una volta al mese: a metà ottobre ha annunciato che davanti ad ogni stabilimento di Leonardo sventolerà presto il tricolore; a metà settembre aveva festeggiato con enfasi il primo posto della società nel Dow Jones della Sostenibilità per il settore A&D, Aerospace&Defense.

Tra parentesi è alquanto controverso che questo comparto possa anche solo comparire in un indice del genere: un’agenzia indipendente americana, che ha pesato il contributo alle emissioni nocive dei vari settori e delle più grandi aziende, ha scoperto che a guidare la classifica del peggio non sono i colossi chimici o petroliferi, ma la difesa e gli armamenti, con il 15% dell’inquinamento complessivo.

Per parte sua l’immarcescibile Profumo è intervenuto pure contro la proposta avanzata da Matteo Renzi di mettere insieme FinCantieri, la società pubblica che costruisce navi, a Leonardo, che arma i mezzi delle Marine di 90 Paesi. Profumo è una sorta di personaggio simbolo della resa incondizionata della sinistra tradizionale al turbo-capitalismo finanziario: mantiene intatto quel non so che di troppo, tipico del potere “rosso-liberista” alla D’Alema anni Novanta, che gli è valso il soprannome Arrogance.

La lettera ai dipendenti con cui Profumo ha presentato la prima sventagliata di nomine della sua gestione “leonardesca”, per esempio, si concludeva così: “Ma c’è un ingrediente essenziale che farà la differenza e che ciascuno di noi potrà aggiungere: la passione“. A lui di certo non manca, e sa come alimentarla. Stando ai pay-watchers come Gianni Dragoni (giornalista del Sole 24 ore specializzato nella denuncia dei comportamenti disinvolti di manager e padroni italiani), Profumo con le armi di Stato viaggia ormai poco fuori dalle top-ten dei più pagati, al 13esimo posto. Certo ora porta a casa uno stipendiuccio – di 734mila euro (dato 2017) – rispetto anche solo alla liquidazione che si fece riconoscere da Unicredit, che era sui 40 milioni: ma diamogli tempo d’arrivare al prossimo giro di nomine.

Questo è il mondo, queste le persone, queste le dinamiche. E chissà se la domanda chiave sul giro d’affari delle armi se la porranno finalmente i tanti che pagano onestamente le tasse e non sanno di alimentare anche un business che dovrebbe ripugnare le coscienze.

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