Novantaquattro milioni di franchi svizzeri. Circa 85 milioni di euro. E’ l’ammontare della cifra che Gunvor International, colosso della mediazione nel settore petrolifero, è stata condannata a pagare al termine del processo che la vedeva sul banco degli imputati per corruzione internazionale. Il procuratore generale della Confederazione ha stabilito che “a causa di gravi lacune nella sua organizzazione interna, il trader petrolifero non ha impedito tra il 2008 e il 2011 la corruzione di pubblici ufficiali della Repubblica del Congo e della Costa d’Avorio”.

Il commerciante ginevrino di materie prime – secondo il comunicato diffuso dal governo – “non disponeva né di un codice di condotta capace di lanciare un chiaro segnale e di guidare i dipendenti nelle loro attività, né di un cosiddetto programma di compliance. Inoltre, non era dotato di alcun audit interno e non aveva alcun dipendente incaricato di individuare, analizzare o limitare il rischio di corruzione”. Né Gunvor ha cercato di gestire il pericolo che le transazioni venissero inquinate dalle mazzette, pericolo legato al ricorso di agenti, ai quali – tra il 2009 e il 2012 – ha versato commissioni per decine di milioni di dollari.

In particolare, Gunvor non ha proceduto ad alcuna selezione degli agenti utilizzati, né ha effettuato alcun controllo sulla loro attività. In sostanza, Gunvor metteva in conto il rischio corruzione come implicito nell’attività commerciale della società, quantomeno sui mercati africani, e non sorvegliava le attività dei propri dipendenti, né degli intermediari.

La società è stata condannata ad una multa di quattro milioni di franchi, tenendo conto del progressivo miglioramento delle sue dinamiche interne, oltre al pagamento di quasi 90 milioni di franchi in risarcimenti, ovvero la totalità dei profitti incassati grazie alle trattative in questione. Si tratta in ogni caso di una delle cifre più alte mai imposte dall’autorità giudiziaria svizzera, che sta cercando di imporre regole più stringenti per controllare il settore.

Oltre all’azienda, anche persone fisiche – ex collaboratori e intermediari finanziari sono attualmente sotto inchiesta per sospetto di corruzione di pubblici ufficiali stranieri. Dal canto suo, la società ha ammesso che nel periodo in questione si sono verificate carenze nei controlli, ma ha fermamente negato un coinvolgimento dei piani alti e sottolinea che nessun attuale dipendente è implicato nelle indagini. L’azienda, inoltre, ha precisato che nel frattempo sono state prese le misure necessarie e che ora dispone di un adeguato sistema di controllo.

Gunvor fu fondata nel 2000 dallo svedese Torbjörn Törnqvist insieme al miliardario russo Gennady Timchenko, che nel marzo 2014 cedette a Törnqvist il suo 44%, un giorno prima di essere colpito dalle sanzioni Usa per i suoi “stretti legami con Vladimir Putin“. L’azienda è registrata a Cipro e ha gli uffici principali a Ginevra; impiega oltre 1500 dipendenti nel mondo.

Questo genere di attività comporta spesso l’operatività in paesi ad alto rischio corruttivo, o dove l’elevata insicurezza richiede il ricorso a intermediari ben inseriti nell’ambiente. Attività spesso oggetto di indagini non solo da parte della magistratura svizzera, ma anche di quella statunitense e brasiliana. Senza contare i processi che anche in Italia hanno a più riprese coinvolto l’Eni.

La condanna di Gunvor giunge un anno dopo quella di un suo ex dipendente, Pascal Collard, condannato a 18 mesi di carcere con la condizionale dopo che lui stesso aveva ammesso di aver corrotto ufficiali congolesi e ivoriani fra il 2009 e il 2012 per mettere al sicuro alcuni cargo di petrolio.

Oggi Gunvor non lavora più in Congo Brazzaville. “Abbiamo imparato la lezione” ha affermato in un’intervista al Financial Times il chief executive Torbjörn Törnqvist, ribadendo che il gruppo starà alla larga dai “buoni affari” se si riveleranno troppo rischiosi. “Non voglio mai più esser coinvolto nemmeno lontanamente in qualcosa di simile al caso del Congo.”

Natasha White del gruppo anticorruzione Global Witness sottolinea come siano “cruciale una regolazione ed un vaglio più stringenti del settore delle commodities”, aggiungendo che la sentenza svizzera manda un chiaro segnale che le compagnie devono agire per prevenire casi di corruzione all’estero. “La Svizzera è la sede delle compagnie di trading più grandi al mondo, molte delle quali fronteggiano indagini per corruzione”.

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