Quando Nicola ‘Rocco’ Femia aveva iniziato a collaborare con la giustizia, tra le cosche di ‘ndrangheta in molti erano preoccupati. La decisione del boss era arrivata a inizio 2017, subito dopo la condanna definitiva a 23 anni per narcotraffico internazionale in Calabria e poco prima della condanna in primo grado a 26 anni per associazione mafiosa a Bologna: le sue dichiarazioni avrebbero potuto investire la ‘ndrangheta calabrese come quella emiliana. Ma proprio nel processo Black Monkey, che si sta celebrando nella Corte d’appello del capoluogo emiliano, in tanti non credono nella genuinità della collaborazione. A partire dal procuratore generale Nicola Proto.

Nell’ultima udienza del processo che vuole fare chiarezza sulla cosca legata a Nicola ‘Rocco’ Femia e sul suo business principale, il gioco d’azzardo legale e illegale, il pg ha infatti parlato di una “collaborazione che non possiamo ritenere tale”. Secondo Proto quelle di Femia sono “semplici dichiarazioni”. Anche perché quanto dichiarato dal boss ai magistrati della Dda di Bologna, non aggiunge niente a un “quadro probatorio granitico”.

Insomma, Femia, che ai magistrati di Reggio Calabria ha detto di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta”, ma di essere “uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”, capo della famiglia mafiosa di Marina di Gioiosa Jonica ucciso nel 1993, nel processo bolognese non sta aggiungendo niente di nuovo. Anzi, lo scopo principale del “pentito”, sembra agli inquirenti essere quello di destrutturare quella che in primo grado è stata riconosciuta come un’associazione mafiosa. Un aspetto su cui si concentra anche il procuratore nella sua requisitoria, mettendo l’accento sul fatto che Femia stia cercando di non aggravare la posizione dei figli, anch’essi condannati in primo grado per 416 bis a 15 e 10 anni di carcere, e quella dell’ex genero Giannalberto Campagna, condannato a 12 anni e presente nell’aula del Tribunale ad ascoltare la requisitoria.

Già a luglio, in una delle prime udienze dell’appello di Black Monkey, era emerso qualche dubbio sulla collaborazione: il presidente della corte Luca Ghedini aveva più volte interrotto Nicola ‘Rocco’ Femia, affermando che non stava dicendo nulla di nuovo rispetto a quanto emerso nel processo di primo grado: collegato in videoconferenza.

Ma, nonostante il quadro probatorio sia granitico, come ha dichiarato il procuratore Proto, c’è ancora un aspetto da chiarire, ed è su questo che si sono concentrati lui e il pubblico ministero Francesco Caleca nell’ultima udienza: mentre nel rito ordinario è stata riconosciuta l’associazione mafiosa, nel rito abbreviato no. Per difendere la prima condanna per 416 bis del Tribunale di Bologna, messa a rischio da due giudicati differenti, il pm ha ricordato la capacità intimidatrice del gruppo.

Francesco Caleca ha ripercorso alcuni dei fatti emersi dalle indagini e ha descritto l’associazione guidata da Femia come un gruppo capace di incutere timore, che agiva come “un’agenzia che può dare sicurezza, può garantire ritorsioni”. Una capacità d’intimidazione che, ricorda il pm, può riguardare anche un singolo ambiente: in questo caso l’associazione controllava lo specifico settore del gioco illegale. Un settore, ricorda sempre Caleca, “monopolizzato da Femia, che si vantava di aver venduto quasi la metà delle slot presenti nel nostro Paese, oltre a possedere siti di gioco d’azzardo online che operavano in quasi tutte le regioni d’Italia”. A breve toccherà ai giudici di secondo grado confermare o meno la condanna per associazione mafiosa al gruppo che, da Bologna, faceva affari in tutta Italia e non solo. Probabilmente, a questo punto, senza tenere in considerazione le dichiarazioni del suo principale esponente.

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