La testa alta palla al piede, il petto in fuori, superbo, in campo. La testa bassa fuori, il viso timido, pulito, da bravo ragazzo prima, da brav’uomo poi. Gaetano Scirea era questo: un fuoriclasse, impossibile da spiegare oggi, a 30 anni dalla morte, ai ragazzini appassionati di calcio, ma anche un esempio che ci si deve sforzare di far conoscere alle giovani generazioni.

E sarebbe difficile, oggi, raccontare un difensore che per sua stessa ammissione non riusciva a far fallo “apposta”, ad essere rude con gli avversari come le buone pratiche del difensore modello degli anni 80 richiedevano. Scirea no, Gaetano, Gai per gli amici , era un buono vero. Causio, compagno di scudetti alla Juve e di Coppe del Mondo in Nazionale, ebbe a dirgli più volte di essere cattivo con gli avversari, rispondere alle provocazioni, affondare i tacchetti. “Non ci riesco”, diceva lui. Non riusciva a tenere il ruolo di bravo ragazzo, di “leader con il saio” come disse di lui Trapattoni, lontano da un luogo macho come il campo: in una zuffa scoppiata in un Fiorentina- Juve, rimproverando avversari e compagni non ebbe altro da dire che “le vostre mogli vi guardano”, seriamente indignato.

Inutile per Scirea, dunque, prendere a calci problemi che si possono superare d’anticipo a petto in fuori, con un lancio a testa alta o con un inserimento: pur giocando difensore, Scirea faceva tanti gol. Da libero ne fece 28, parecchi. Gol fatti, anche quelli, con educazione: spesso chiedendo permesso per sganciarsi ai compagni o al mister. Così dicono gli aneddoti, le leggende. Così si dice di un derby che il Toro stava vincendo e lui ribaltò, con due gol. “Tanta roba” si direbbe oggi di Scirea: papà siciliano, operaio alla Pirelli, e mamma lombarda, nato interista, passato per l’Atalanta e poi recordman di presenze nella Juventus, 552, poi superato da Buffon e Del Piero.

Talmente umile che lui, Scirea, già fortissimo, tesseva entusiasta coi mister le lodi di un giovanissimo che si avviava a svolgere, e molto bene, il suo stesso ruolo, un potenziale avversario: Franco Baresi. Zero malizia, zero invidia, zero cartellini rossi: mai espulso, una fortuna per ogni mister che lo ha allenato.

Lui però diceva il contrario, di esser stato fortunato a poter incontrare Parola che “responsabilizzava i giovani”, Trapattoni “che teneva unito lo spogliatoio”, Rino Marchesi, “un uomo sereno”, e il vecio Bearzot “di straordinaria umanità”.

Avrebbe voluto seguire il loro esempio Scirea: smessi gli scarpini era rimasto alla Juve, osservatore e vice allenatore, secondo di Zoff. E proprio in virtù del suo ruolo fu spedito a studiare il prossimo avversario della Juve in Coppa Uefa: il Gornik Zabrze. Squadra polacca tutt’altro che irresistibile, da affrontare ai trentaduesimi di finale, una sorta di preliminare di oggi, tant’è che pure Zoff aveva giudicato superflua la supervisione. Scirea tuttavia andò a Zabrze, e nel viaggio di ritorno verso Varsavia, dove avrebbe dovuto prendere il volo di ritorno per l’Italia, per raggiungere sua moglie Mariella e suo figlio Riccardo al mare, ad Andora, l’auto su cui viaggiata fu tamponata da un furgone e prese fuoco. Scirea morì assieme all’interprete e all’autista che l’accompagnavano.

Sandro Ciotti annunciò la tragedia alla Domenica Sportiva: lasciando sgomenti i telespettatori e i presenti in studio, tra cui Tardelli, compagno di Scirea, campione del mondo con lui. Atterriti i compagni, distrutto Zoff, amico e collega, che informato della tragedia tirò un calcio al pullman della squadra e ai funerali sedette accanto a Riccardo tenendogli un braccio sulla spalla.
Resta l’esempio, dopo 30 anni: un calciatore forte, tra i migliori della storia e nonostante ciò sempre umile, un campione di umanità mai sopra le righe, protagonista solo in campo, e in bene, e per questo raccontato e portato a esempio a ragazzini abituati a richieste di rinnovo, musi lunghi e polemiche. Teste alzate e non teste alte, come quella di Scirea.

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