Si è spesso discusso del rapporto dei trattati europei con la Costituzione italiana. Di solito, il dibattito si concentra sulla cosiddetta gerarchia delle fonti. Significa chiedersi se, e quando, una legge viene prima di un’altra, fa cioè premio la prima sulla seconda così da subordinare l’applicazione di quella meno “forte” rispetto a quella “sovrastante”. In termini pratici, cosa accade quando un principio o una regola europea confliggono con i principi e le regole italiane? Soprattutto, cosa accade quando questo conflitto coinvolge la nostra Costituzione?

La giurisprudenza della Corte Costituzionale, dopo una qualche oscillazione, si è assestata su una “linea del Piave”: le norme europee, quand’anche direttamente cogenti come nel caso dei regolamenti (licenziati dal Consiglio e dal Parlamento europeo su iniziativa esclusiva della Commissione) non possono mai “vincere la partita” con i principi inviolabili contenuti negli articoli da 1 a 12 e con i diritti fondamentali sanciti, anzi “riconosciuti”, dagli articoli da 13 a 54 della Carta costituzionale (Corte Cost. nr. 1146/88, 284/2007, 238/14, 275/16). Quindi, l’Europa non ci può imporre norme in contrasto con quelle ritenute non negoziabili dai nostri Padri costituenti ed entrate in vigore il primo gennaio 1948.

Chiarito un tanto, vogliamo proporre un tema meritevole di discussione. Si può fondatamente affermare che la struttura giuridica della Ue è, di per se stessa, e cioè nelle sue fondamenta, non solo potenzialmente confliggente, ma addirittura alle radici antitetica rispetto all’impianto politico ed economico pensato e voluto dai legislatori costituzionali nell’immediato Dopoguerra? Verifichiamolo.

La Costituzione italiana si regge su una triade di principi: solidarietà sociale, uguaglianza e tutela del lavoro. Il primo di essi è consacrato nell’articolo 2, a mente del quale la Repubblica, nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, richiede al cittadino l’adempimento degli “inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale”. Il secondo valore è consacrato nell’articolo 3 che sancisce l’uguaglianza tra i consociati senza distinzione “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali”. Infine, la tutela del lavoro riposa sull’articolo 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) e sull’articolo 4 secondo il quale ogni cittadino è chiamato a svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, “una attività che contribuisca al progresso materiale e spirituale della società”.

Nel caso dei trattati europei – se andiamo al nocciolo della loro impalcatura e prescindiamo dalla suggestione delle enunciazioni di principio e di facciata – troviamo promossi: in luogo della solidarietà, un ferreo “egoismo” sociale, in luogo dell’uguaglianza, la gerarchia di censo e in luogo della tutela del lavoro, la preservazione della sicurezza dei rentiers.

Quanto al primo punto, è sufficiente soffermarsi sugli articoli 123, 124 e 125 del Trattato di Lisbona che vietano categoricamente ogni forma di aiuto, scoperto di conto, facilitazione creditizia rispettivamente della Bce agli Stati, dell’Unione agli Stati e degli Stati tra loro. L’accesso privilegiato al credito è invece esplicitamente garantito al mondo bancario e della finanza (art. 123, secondo comma).

Quanto al secondo aspetto (la gerarchia di censo), esso è addirittura il cuore pulsante dell’intera architettura Ue: l’articolo 3 del Trattato di Maastricht, infatti, afferma che la Ue si regge su una economia sociale di mercato “fortemente competitiva”. La forte competitività, nella governance di sistemi sociali complessi, è la continuazione dell’ostilità individuale con mezzi non militari, ma economici. La concorrenza, valore supremo della filosofia neoliberista e dell’habitus giuridico ordo-liberista in cui essa si traduce, comporta, necessariamente e senza eccezioni, la “vittoria” di pochi (dei migliori) a danno dei molti: i perdenti della competizione globale.

Quanto al terzo fattore (la tutela dei rentiers), è sufficiente soffermarsi sull’autentica ossessione dei trattati per la “stabilità dei prezzi” che, in base al combinato disposto dell’articolo 3 di Maastricht e degli articoli 119, 120 e 127 di Lisbona si colloca, expressis verbis, prima e al di sopra di ogni altro valore. Il principale beneficiario di un’inflazione piatta, ovviamente, è il creditore, prenditore e prestatore di denaro. Nell’Eurozona, esso è tutelato anche a costo di sacrificare la piena occupazione, anzi anche a costo di tollerare una elevata “disoccupazione naturale”. Basti pensare ai criteri fissati dal Fiscal compact con le formule Nairu e Nawru, che esprimono proprio il tasso di disoccupazione fisiologicamente sopportabile al fine di non innescare spirali inflattive.

Oggi quel tasso – vale a dire la disoccupazione che siamo obbligati a tenerci in casa, in rispetto dei patti stolidamente sottoscritti e in barba ai nostri principi costituzionali – si aggira intorno al nove, dieci per cento. In definitiva, ciò che ci sta accadendo è il frutto di una deliberata (forse ingenuamente incompresa) scelta di campo politico-sociale, declinata in modo inappuntabile sul piano del diritto positivo: le nostre attuali condizioni rispecchiano fedelmente la ratio intrinseca dei trattati. Che poi ciò sia in patente contraddizione con i valori della nostra Carta fondamentale del 1948 è stato considerato, fino ad oggi, un dettaglio inessenziale.

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