Iris è una donnina piccola per natura e dai capelli cortissimi per necessità. Lavora come addetta mensa a 15 ore settimanali in una scuola, il minimo contrattuale, per circa cinquecento euro al mese. La sua malattia è lunga e purtroppo tra le più comuni, ma non è un’influenza. La mutua di cui ha diritto, in base al Contratto nazionale applicato al suo settore, finisce. E lei resta con la sua battaglia a cui aggrapparsi per resistere. Tra gli obiettivi di questa battaglia, oltre alla guarigione, c’è quello consequenziale di rientrare il prima possibile sul posto di lavoro e quindi conservare il posto da addetta mensa durante le cure necessarie. L’unica opzione che la tutela in questo senso è la specifica contrattuale che le permette di agganciare i sei mesi di mutua a ulteriori 120 giorni più altri 120, senza ricevere però alcuno stipendio o sussidio per quel prolungamento.

Decide quindi di chiedere all’azienda l’aspettativa generica, che le viene concessa nell’immediato; “tanto cosa cambia”, dice Iris, “non percepirei comunque la retribuzione”. Ha gli occhi grandi e tondi e cammina affaticata, sempre accompagnata dalla figlia che, pur essendo giovanissima, ha l’età per lavorare. Così Iris continua a dire: “Se lei potesse prendere il mio posto, non è un gran che, ma almeno riusciremmo a campare”. Iris riesce a fare i documenti per ottenere i 30 giorni che le spettano per legge, quelli garantiti per a chi ha malattie che implicano terapie salva-vita. Sono 30 giorni in un anno, usufruibili in unica soluzione o spezzettabili. Rido con amarezza.

Ho già vissuto con una mia giovane collega cosa voglia dire cercare disperatamente di conservare il proprio posto di lavoro quando si ha una malattia gravissima o degenerativa. È che spesso conservarlo non basta, perché senza soldi non ci si cura nemmeno più nel nostro Paese. La mia collega è mancata l’anno scorso dopo due anni di travaglio, con una legge 104 richiesta per se stessa e attesa per nove mesi; quando le fu notificata ormai non le serviva più. In Italia la legge 104 nasce per l’accudimento di un parente malato che, nel caso sia residente con chi la richiede, fa scattare la possibilità di avere due anni di congedo retribuito. Se invece la malata sei tu, hai solo tre giorni al mese per curarti. Nei fatti non esiste alcun paracadute reale per questi lavoratori. Quando ce la fai, il posto di lavoro lo conservi, ma muori di fame.

Iris si aggrappa a quei 30 giorni retribuiti per avere un po’ di respiro economico e poi riparte con l’aspettativa. Jenny, la figlia di Iris, bussa alla porta dell’azienda per cui lavora sua madre e porta il suo curriculum vitae. Le viene offerto un tempo determinato a sei ore a settimana. Sei ore a settimana, avete capito bene. Jenny ringrazia e firma il contratto. “Meglio che niente”, sostiene, e in fondo è impossibile darle torto, ma attenzione! Questa è la prima esperienza di Jenny nel mondo del lavoro. E un lavoro a sei ore settimanali non è un lavoro che dà dignità a chi lo svolge, ma qui si aprirebbe un altro capitolo.

Iris si sta curando, vive con Jenny e i suoi duecento euro di stipendio, mentre spera di guarire e contemporaneamente di riuscire ad accedere a una piccola pensione di invalidità per sopravvivere. Una dicotomia che lascia congelati se ci si pensa. Poi ci sono anche persone, in situazioni simili, che, volendo rientrare al lavoro, risultano troppo invalide per svolgere le proprie mansioni, dichiarate non idonee a seguito di visita aziendale, e contemporaneamente non abbastanza invalide per l’Inps che rigetta le domande di pensione anticipata o gli aggravamenti nel frattempo effettuati (e in questo senso va ricordato il grande e prezioso lavoro dei patronati sparsi su tutto il territorio nazionale ai quali si tagliano anche le risorse!). Queste persone restano nel limbo del sospeso, dentro la sensazione di ingiustizia, di inadeguatezza e di impossibilità di vivere nei bisogni primordiali. Come Cristo mangiano!

La battaglia di Iris è una battaglia che inevitabilmente coinvolge chiunque la guardi dentro i suoi occhi tondi e grandi, chiunque noti quei capelli cortissimi per necessità. Un input che tento di lanciare con il mio piccolo megafono pur consapevole che resterà inascoltato. Diventa un dovere occuparsi di questo gap politico e normativo perché esiste ancora l’umanità a farci sentire appunto esseri umani davanti alla sofferenza degli altri.

Ci sono tante, troppe storie sbagliate, come cantava “qualcuno”; storie di comune nuova povertà, quella di chi ha un lavoro ed è comunque povero. Quelli che… ci si deve augurare sempre di stare bene, altrimenti si deve affrontare un doppio dramma. Cos’altro ci serve allora “da queste vite”, penso d’istinto mentre mi gira in testa la bella canzone di De Andrè, “ora che il cielo al centro le ha colpite, ora che il cielo ai bordi le ha scolpite”.

*I nomi utilizzati per raccontare questa storia sono di fantasia

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