La compagnia aerea Itavia deve essere risarcita dai ministeri della Difesa e delle Infrastrutture perché andò in dissesto finanziario in seguito al disastro di Ustica. E i 265 milioni di euro dovuti dalle casse statali, come stabilito dalla Corte d’appello di Roma potrebbero non bastare. È quanto ha stabilito la Cassazione respingendo i ricorsi dei due dicasteri e accogliendo quella società, secondo la quale quei soldi non sono sufficienti a ristorare il danno perché fu costretta alla cessazione definitiva dell’attività per insolvenza dopo uno stop di sei mesi.

La Suprema corte ha quindi convalidato quanto stabilito dai giudici civili di merito a ritenere “più probabile” che il disastro di Ustica, dove nel 1980 precipitò il Dc-9 con 81 persone a bordo, sia conseguenza del “lancio di un missile”, condannando i ministeri a risarcire il danno per non aver assicurato la sicurezza nei cieli e l’assistenza al volo. La terza sezione civile della Cassazione, che è intervenuta dopo una pronuncia in maggio delle Sezioni Unite, ha disposto un nuovo processo d’appello a Roma – sarà il sesto grado di giudizio – che dovrà decidere sulla ulteriore pretesa risarcitoria di Itavia.

Oltre a quanto già stabilito dal precedente appello, quindi, i giudici sono ora chiamati a valutare sull’ulteriore richiesta di danni relativa alla cessazione dell’attività, con conseguente revoca delle concessioni di volo. La società, che per questo si trova in amministrazione straordinaria, ritiene che nel quantificare il danno i giudici d’appello abbiamo fatto “una indebita confusione” tra il fermo della flotta all’indomani del disastro fino al dicembre 1980 (per il quale il danno è stato riconosciuto) e la revoca della concessione: due fatti che secondo la difesa devono essere considerati, e risarciti, distintamente. L’appello aveva ritenuto non “duplicare” il risarcimento, ma la Cassazione ha sposato la tesi di Itavia.

Il Dc-9 I-Tigi Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo con il nominativo radio IH870, scomparve dagli schermi del radar del centro di controllo aereo di Roma alle 20.59 e 45 secondi del 27 giugno 1980. L’aereo era precipitato nel mar Tirreno, in acque internazionali, tra le isole di Ponza e Ustica. All’alba del 28 giugno vennero trovati i primi corpi delle 81 vittime (77 passeggeri, tra cui 11 bambini, e quattro membri dell’equipaggio).

Il volo procedeva regolarmente a una quota di circa 7.500 metri senza irregolarità segnalate dal pilota. L’aereo, oltre che di Ciampino (Roma), era nel raggio d’azione di due radar della difesa aerea: Licola (vicino a Napoli) e Marsala. Alle 21.21 il centro di Marsala avvertì del mancato arrivo a Palermo dell’aereo il centro operazioni della Difesa aerea di Martina Franca (Taranto). Un minuto dopo il Rescue Coordination Centre di Martina Franca diede avvio alle operazioni di soccorso, allertando i vari centri dell’Aeronautica, della Marina militare e delle forze Usa.

Alle 21.55 decollarono i primi elicotteri per le ricerche. Furono anche dirottati, nella probabile zona di caduta, navi passeggeri e pescherecci. Alle 7.05 del mattino successivo vennero avvistati i resti del DC-9. Le operazioni di ricerca proseguirono fino al 30 giugno, vennero recuperati i corpi di 39 degli 81 passeggeri, il cono di coda dell’aereo, vari relitti e alcuni bagagli delle vittime. Una delle ultime sentenze risale al 29 giugno dell’anno scorso quando lo Stato fu condannato a risarcire 29 familiari“L’aereo fu abbattuto da un missile. E dopo ci furono depistaggi”, scrissero i giudici della Corte d’Appello di Palermo.

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