Prima delle contestazioni del ’68 e delle grandi conquiste di nuovi diritti, nella rossa Emilia ci sono stati donne e uomini di cui la storia non sempre ha parlato, che hanno lottato per la propria emancipazione e quella delle generazioni future. Due di loro si chiamano Angela Lodi e Anna Zucchini. L’8 marzo del 1955, a Bologna, vennero arrestate per avere distribuito la mimosa davanti alla fabbrica Ducati nella Giornata internazionale della donna e condannate a un mese di reclusione nel carcere di San Giovanni in Monte. È da questo luogo di prigionia, oggi diventato la sede del dipartimento di Storia dell’Università, in cui all’epoca venivano rinchiusi politici e lavoratori, sindacalisti e cittadini comuni, che emergono i frammenti di un passato poco conosciuto che ha segnato profondamente il corso degli eventi non solo in Emilia Romagna, ma anche in tutta Italia. A riportarli alla luce è stato il regista Andrea Bacci, che nel film documentario Paura non abbiamo prodotto da Seven Lives Film racconta attraverso le testimonianze dei protagonisti di quel periodo, gli anni di lotte e rivendicazioni, ma anche di repressioni e tensioni che cambiarono la vita di molte donne e molti uomini a Bologna. Come l’arresto di quell’8 marzo 1955, a dieci anni dalla fine della guerra, quando offrire la mimosa era vietato perché visto come un atto sovversivo. “Siamo partiti dalla storia dell’arresto, una vicenda poco nota anche nel bolognese, ma durante la lavorazione abbiamo capito che non potevamo limitarci a quello, ma dovevamo ricostruire il contesto, riportare cosa succedeva in quegli anni”, spiega Bacci.

Il progetto, realizzato con i coautori Eloise Betti e Mirco Dondi, che lavorano entrambi al dipartimento di Storia dell’Università di Bologna, si è così allargato a un pezzo di storia rimasto ai margini. Quella di quando il capoluogo emiliano, unica città con i comunisti al potere in piena Guerra fredda, era visto come una minaccia dal governo centrale e dagli alleati. Quella del braccio di ferro tra Roma e l’amministrazione locale, sfociato spesso in repressioni poliziesche per contenere azioni in contrasto con l’ordine costituito. “Bologna era considerata una roccaforte pericolosa della sinistra perché la giunta sosteneva i lavoratori nelle loro proteste – continua Bacci – Così anche distribuire fiori era un simbolo di lotta per i diritti dei lavoratori e delle donne, che chiedevano salari più alti e condizioni migliori”. All’epoca le leggi fasciste erano paradossalmente ancora in vigore e venivano utilizzate per reprimere. Giornalisti, lavoratori, semplici cittadini: chiunque poteva essere incarcerato per qualsiasi motivo, dalla consegna di un fiore come la mimosa, punito come una questua abusiva, all’affissione di un manifesto per invitare alla festa dell’unità, fino a una parola di troppo in un articolo di giornale o alla partecipazione a un’assemblea sindacale. In città, si spiega nel documentario, tra il 1947 e il 1955 ci furono 15mila azioni penali per motivi politici; 7500 persone vennero condannate, di cui 1000 per la distribuzione di volantini, e molte altre per aver partecipato a manifestazioni o aver occupato le fabbriche.

La scelta del regista e della produzione per la ricostruzione dei fatti è stata quella di non utilizzare filmati, ma fotografie, più utili a “ritrovare volti e luoghi”, ma anche più vere, capaci di mostrare la storia “dal basso”, dal punto di vista di quei protagonisti e testimoni lontani dalle telecamere che riprendevano la storia ufficiale. Così nel documentario scorrono 250 immagini in bianco e nero, la maggior parte delle quali inedite, provenienti da archivi come quello dell’Unione Donne in Italia di Bologna, quello storico sindacale Paolo Pedrelli, dall’Archivio fotografico dell’Università di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna e dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Ci sono scatti d’epoca di scioperi, assemblee femminili, manifestazioni, cortei.

In quegli anni la Ducati, come molte altre fabbriche in Italia, aveva chiesto 960 licenziamenti, in molti casi di persone affiliate a organizzazioni politiche e sindacali di sinistra. Erano nati i primi movimenti operai, c’erano state le prime fabbriche occupate, e si stava assistendo alla nascita di una coscienza politica che sarà la base per le future lotte per i diritti, che videro in prima linea non solo gli uomini, ma anche e soprattutto le donne. “In Emilia Romagna molte lavoratrici erano impiegate nelle fabbriche metalmeccaniche e si battevano per diritti che furono riconosciuti anni dopo”, chiarisce Bacci. Una generazione dimenticata che visse di rivendicazioni, ma uscì sconfitta. Perché purtroppo quelle battaglie non videro un traguardo nell’immediato. “La fedina penale degli arrestati venne ripulita dopo che nel 1956 le leggi fasciste vennero eliminate, ma quella generazione uscì sconfitta da quegli anni di lotta – aggiunge il regista -. Eppure, se quelle persone non avessero dato il via alla protesta, non ci sarebbero stati gli anni Sessanta, o il femminismo o la legge 194”.

Per questo uno degli obiettivi di Paura non abbiamo è stato anche ridare dignità ai protagonisti di quella lotta, che non ebbero il privilegio della vittoria e al tempo anzi subirono condanne, arresti, licenziamenti, finendo poi dimenticati. “Da questo punto di vista, il documentario per queste persone è stata una specie di riscatto, una rivincita. Per i testimoni di quei fatti, raccontare la loro storia è stato riconoscere finalmente il valore di quello che avevano fatto”.

Il documentario, che è stato realizzato con una campagna di crowdfunding, è stato presentato in anteprima nel 2017 in occasione dell’8 marzo. Ha già girato l’Italia tra proiezioni nei cinema e nelle scuole, e in previsione nei prossimi mesi c’è l’uscita di un dvd. “Spesso quando facciamo i dibattiti con gli studenti, i ragazzi rimangono colpiti dalle forme di attivismo che c’erano allora, e alcuni si sono commossi nel vedere cosa significa non avere quello che oggi diamo per scontato, come i diritti” racconta il regista, spiegando anche gli spunti di riflessione nati durante la produzione. “Noi abbiamo lavorato sugli anni Cinquanta, dove i diritti non c’erano e dovevano essere conquistati, ma di dimissioni in bianco o disparità di salario si parla ancora oggi. Quello che dobbiamo pensare è che c’è sempre il pericolo imminente di ritornare indietro”.

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