Ha ragione Luigi Di Maio quando dice che la Terza Repubblica è cominciata. Finalmente. E assomiglia moltissimo alla Prima Repubblica del proporzionale, fotografia di un Paese felicemente dissociato. Da un lato il Paese legale, cioè le élite di giornaloni e dinosauri del fu centrosinistra (Prodi, Napolitano, Enrico Letta, Veltroni) che fino all’altro giorno ha cercato di imporre un quadro inesistente, fatto di presunta responsabilità e presunte competenze. Dall’altro, invece, il Paese reale che ha punito nell’urna l’arroganza delle élite, massì diciamolo pure della Casta, con numeri incredibili: più del 50 per cento del 73 per cento dei votanti che ha scelto Cinquestelle e Lega e un solido 27 per cento di astensionisti, la cifra più alta raggiunta in 70 anni di elezioni politiche per il Parlamento. Di qui tre considerazioni.

1) Questa Terza Repubblica nasce di fatto con un quadri-polarismo anomalo. Una forza, il M5s, che giganteggia e si arrampica a un eloquente 32 per cento, sia alla Camera sia al Senato, e tre partiti di medie dimensioni, distaccate di oltre dieci punti: il Pd al 19 per cento, la Lega che sfonda il 17 per cento, Forza Italia che si riduce a un imbarazzante 14 per cento. Voler leggere unitariamente il dato del centrodestra, intorno al 37 per cento, è infatti una finzione politica. In questa campagna elettorale la coalizione che faceva capo a Silvio Berlusconi, è bene usare l’imperfetto, ha soprattutto condotto le proprie primarie interne per stabilire di chi fosse la leadership. E Matteo Salvini ha vinto.

Una svolta epocale dopo un quarto di secolo in cui l’ex Cavaliere era il padre padrone di questa parte del campo. Nelle prime reazioni a caldo, il leader del Carroccio ha mostrato in modo chiaro la sua strategia: nessun dialogo con i Cinquestelle, almeno per il momento, ché poi ci sarà la dinamica delle consultazioni che avvierà il capo dello Stato. L’obiettivo di Salvini è evidente: cannibalizzare Forza Italia e consolidare il suo nuovo ruolo di guida della coalizione. E’ lo stesso disegno che aveva in testa Matteo Renzi all’inizio della sua parabola politica: rivolgersi ai forzisti delusi e inglobarli nel Pd mancato Partito della Nazione. Salvini, invece, risultati alla mano, ha avviato l’operazione da un fronte opposto, più radicale, e ha cominciato bene, senza dubbio.

2) Il funerale del bipolarismo della Seconda Repubblica è crudelmente rappresentato dai numeri delle due forze principali moderate, Pd e Forza Italia, fino a cinque anni fa traino rispettivamente del centrosinistra e del centrodestra. Il fatidico “centro” renzusconiano, sommato insieme, ha significativamente lo stesso dato dei Cinquestelle, intorno al 32 per cento. E’ il tramonto gemello del pregiudicato Berlusconi e dello spregiudicato Renzi, considerati geneticamente uguali, in senso politico, e già protagonisti del letale patto del Nazareno. E’ la fine della logica di sistema che nell’ultima legislatura ha portato a tre governi non espressione delle urne: Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. Le larghe intese sono diventate ristrettissime e il centro non è più vincente.

3) Il crollo del centrosinistra non è solo colpa di Matteo Renzi. Certo, l’arroganza del giglio magico (Renzi, Boschi, Lotti, Bonifazi, Carrai) era stata già asfaltata al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ma il renzismo è stato il frutto avvelenato e per certi versi scontato di una stagione iniziata nel lontano 2011, quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano impose ai gruppi dirigenti del Pd, Bersani in testa, il governo tecnico di Mario Monti. Lo stesso Bersani pagò poi questa sciagurata fase alle elezioni del 2013, arrivando primo ma non vincendo. Ecco, fino a quando la sinistra tradizionale di matrice post-comunista non farà i conti con il devastante realismo di Napolitano, dal 2011 al 2015, non ci sarà alcuna rinascita o palingenesi. Ed ecco perché l’esperienza di Liberi e Uguali è stata fallimentare, riproponendo il modulo perdente della vecchia Ditta (lo stesso Bersani e D’Alema) e incartandosi per mesi e mesi in una surreale ricerca della leadeship, dapprima Giuliano Pisapia indi un improbabile Pietro Grasso, ingessato e non carismatico. Il 4 marzo dimostra ancora una volta che l’elettore di sinistra ha preferito due opzioni: l’astensionismo punitivo o il voto ai Cinquestelle. Tertium non datur, visti gli striminziti risultati di Liberi e Uguali o delle varie frattaglie frazioniste della sinistra radicale. Almeno per l’immediato, il Pd e anche LeU hanno una sola scelta a disposizione: passare per l’obbligato “renzicidio” e sostenere un governo dei Cinquestelle. Solo così si potrà ricomporre quella frattura tra due elettorati che si guardano e si parlano, al contrario della contrapposizione andata avanti per anni nel Paese legale, tra M5s e Pd. Ovviamente non il Pd dei renziani, di Andrea Romano e Gennaro Migliore, del clan De Luca o dei riciclati berlusconiani al Sud. Si prospetta una lunga e durissima traversata nel deserto, ma al cospetto di questi numeri non ci sono alternative.

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