Altro che nodo alleanze. Con la legislatura quasi finita e le urne all’orizzonte, l’ossessione, anche tra i parlamentari Pd, si chiama “ricandidatura”. Tra i corridoi e i palazzi parlamentari, la guerra delle liste è già partita. E nemmeno la fedeltà a Matteo Renzi rischia di bastare per chi punta a un nuovo mandato. Il motivo? A spaventare non è tanto il rinnovamento paventato dallo stesso segretario per la composizione della lista dem per il prossimo Parlamento. Il vero incubo per big e veterani del partito sono invece le regole interne del partito stesso. Basta leggere lo Statuto. Perché il regolamento, all’articolo 21 comma 3, parla chiaro: “Non è ricandidabile da parte del Partito Democratico per la carica di componente del Parlamento nazionale ed europeo chi ha ricoperto detta carica per la durata di tre mandati”. Quindici anni al massimo, così com’è stata interpretata la norma già nel 2013. Ovvero, tre mandati pieni. La conseguenza? Tra Camera e Senato, non pochi rischiano di perdere la poltrona, restando a mani vuote. Numeri alla mano, sono almeno 32 i democratici che rischiano di essere incandidabili per le norme del partito (salirebbero a 76 se i tre mandati non fossero considerati completi, ndr). I nomi? Non solo peones qualunque. Ma ministri, storici dirigenti e capigruppo, compresi renziani di stretta osservanza. A partire dal premier Paolo Gentiloni e dal titolare dell’interno Marco Minniti, entrambi con quattro mandati e già 17 anni in Parlamento alle spalle. Ma non sono gli unici.

Tra i nomi di peso c’è anche il ministro alla Cultura Dario Franceschini e la titolare della Difesa, Roberta Pinotti, il capogruppo al Senato Luigi Zanda, il fedelissimo renziano ed ex candidato sindaco di Roma, Roberto Giachetti. E poi Antonello Giacomelli, Ermete Realacci, il prodiano Franco Monaco, l’ex dalemiano Nicola Latorre. In pochi, ministri su tutti, hanno voglia di replicare: “Se chiederò la deroga? La saluto, non ne parlo con lei per strada, ma in ambito di partito”, replica stizzita Pinotti a ilfattoquotidiano.it. Non risponde ai microfoni nemmeno Franceschini – ormai un classico – che si rifugia in macchina. Tra i pochi a replicare c’è Nicola Latorre, senza però esporsi troppo: “Non mi sono posto il problema”. Altri ancora, come Ettore Rosato, hanno tre mandati, ma non pieni. E così puntano a salvarsi: “Non ho 15 anni alle spalle. Se mi ricandido? Decidono gli elettori“, rivendica lo stesso capogruppo alla Camera.

Ma la salvezza, anche per chi ha superato i tre mandati, c’è: e si chiama “deroga”, che può essere richiesta da chi vuole continuare il suo percorso politico in Parlamento. E dovrà essere approvata dalla Direzione Pd, con voto a maggioranza assoluta. Non potrà però valere per tutti: norme alla mano, i “graziati” non potranno superare il 10% del numero dei parlamentari uscenti (non più di 38, in questo caso, ndr). Ma non solo. C’è già chi prevede come possa diventare un’arma di ricatto nelle mani del segretario, nei confronti delle minoranze. E pure di chi, nel governo, ha fatto troppa ombra all’ex premier dopo il tracollo referendario del 4 dicembre. “Franceschini e Minniti dovranno presentarsi con il cappello in mano dal segretario per ottenere la ricandidatura? Da noi non funziona così. Basta la loro autorevolezza”, risponde però piccato il renziano Andrea Marcucci, che non ha raggiunto i 15 anni complessivi.

All’ultimo giro, nel 2013, furono 10 i “veterani” che riuscirono a ottenere la deroga, per poi partecipare alle primarie interne: Rosy Bindi e Anna Finocchiaro (tra le poche che hanno già dichiarato di volersi fermare, ndr), il cattolico Beppe Fioroni, Franco Marini, Gianclaudio Bressa, Cesare Marini, Mariapia Garavaglia, Mauro Agostini, Giorgio Merlo e Giuseppe Lumia. Oggi, invece, ufficialmente quasi nessuno si espone. “Io ho già dato. Non c’è mica bisogna di stare per forza in Parlamento per fare il proprio impegno civile”, è la stoccata della vicepresidente del Senato Linda Lanzillotta, ex Sc, tra le poche che ha già deciso di dire “basta”. Ma sembrano parole che, al Nazareno, restano quasi inascoltate. “Mi ritroverete in Parlamento? Chissà, è ancora presto”, replica sarcastico Andrea Romano, un altro ex montiano, ora direttore di “Democratika”, il giornale dem. E, tra i renziani della prima, seconda, terza o quarta ora, nessuno vuol farsi da parte: “Vediamo, ancora c’è tempo per decidere”, è il mantra ripetuto pure da Ernesto Carbone, uno che – come Renzi, Boschi – aveva promesso di lasciare la politica se avesse vinto il “No” al referendum. Per poi rimangiarsi tutto. Ci sono pure i transfughi ex Sel, come Titti Di Salvo: “Io di anni di mandato ne ho soltanto sette…“, ci tiene a precisare, per mostrare di avere i requisiti giusti, Statuto alla mano, per partecipare al nuovo corso. O chi si dice “pronto alla sfida in un collegio”, come il senatore Roberto Cociancich, noto per il suo “canguro” ammazza emendamenti, ai tempi del passaggio della riforma costituzionale a Palazzo Madama. Resta il nodo di come saranno scelti i potenziali eletti: “Le primarie nei collegi saranno difficili da fare, perché c’è una coalizione. Nel Pd, invece, decideremo”, si limita a spiegare al momento Rosato. Ma l’esperimento delle primarie per i parlamentari, già usato a fine 2012, sembra al momento già archiviato dallo stesso Renzi.

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