Il vento autonomista soffia da un pentagono dalla forma irregolare, nel cuore del Veneto. Non da Venezia, non da Verona, non da Padova, le prime tre città della regione per popolazione. Piuttosto da cittadine che non superano i 15mila abitanti, più spesso da paesi che a stento superano i 2mila. Non borghetti, non puntini sperduti. Quasi sempre i paesi che fanno da carbone alla vecchia locomotiva, quella d’Italia. Per disegnare quel pentagono si può partire da Terrassa Padovana per salire su fino a Roveré Veronese, si può svoltare verso Valdagno e superarla per raggiungere Borso del Grappa e scendere di nuovo per attraversare Noale e tornare dietro ai Colli Euganei. E’ qui che le urne si sono gonfiate di schede, bagnando con un plebiscito le parole di Luca Zaia, della Lega Nord, del centrodestra in generale. Da una parte è la conferma che questa parte di Nord, da Ferrara in su, è tornata a identificarsi con il pensiero berlusconiano-leghista, dopo la sbandata per Renzi nell’anno del 40 per cento delle Europee. Ma dall’altra parte torna di nuovo il tema che ha segnato tutte le elezioni degli ultimi anni, dalle Comunali al referendum costituzionale fino alle stesse primarie del Pd: la città da una parte, la periferia, la provincia, la campagna dall’altra.

E’ come se i centri lontani dalle istituzioni, dai “palazzi della politica“, si sentissero ancora più lontani, si sentissero trascurati. Come se avessero bisogno di mandare un messaggio: poiché vi dimenticate di noi, penseremo noi a noi stessi. Il Veneto ai veneti, anche se in forma ultrasoft, anche se il voto del referendum non servirà ad avere di più di quanto già concede la Costituzione modificata nel Titolo V, riforma del centrosinistra. Ma è un segnale, trasmesso sia dal Veneto sia dalla Lombardia, attraverso le cifre dell’affluenza.

L’esempio lampante è Padova. Il territorio provinciale registra una presenza ai seggi che col 59,7 per cento scavalca la media regionale del 57 per cento ed è la seconda più alta, dietro alla sola provincia di Vicenza (62,7) e davanti a quella di Treviso (58,1). Eppure la città di Padova non raggiunge nemmeno il 50 per cento dei votanti e si ferma al 46, unico Comune della provincia a stare sotto la soglia del 50. Ma vale lo stesso anche per Treviso e Vicenza dove l’affluenza è sopra la metà degli aventi diritto ma molto più bassa del circondario (a Treviso si ferma al 50,4, a Vicenza al 52). Viceversa il “pentagono irregolare” che spinge il verbo leghista si puntella sui paesi che segnano le percentuali più alte: nel Padovano a Terrassa (72,7 per cento), a Roveré Veronese (76,2), a Nogarole Vicentino (75,4), nel Trevigiano a Borso del Grappa (70,6), a Vigonovo e Santa Maria di Sala, in provincia di Venezia (entrambe sono a ridosso del 70 per cento). Nella provincia di Vicenza, la più autonomista d’Italia, c’è l’esempio di San Pietro Mussolino – ad alto tasso d’integrazione con cittadini stranieri – dove ha votato oltre il 75 per cento degli elettori: il 99 per cento di questi ha scelto il Sì.

Il fenomeno risulta più evidente in Lombardia, dove la quota degli elettori che sostengono la linea autonomista si alza dentro a un rettangolone al Nord di Brescia, BergamoLecco e Como: dalla Valtellina al lago d’Iseo, dal lago di Como ai piedi dell’Adamello. Qui – monte dopo monte, valle dopo valle – l’affluenza si impenna dalla media regionale del 38 per cento fino a toccare il 47 nel Bergamasco a trazione leghista (e con il renziano Giorgio Gori “complice”), a sfiorare il 45 nel Lecchese, a superare il 44 nel Bresciano e oscillare tra il 41 e il 42 tra Como e Sondrio. Anche qui, però, tutto cambia se entriamo nei rispettivi capoluoghi. Basti come esempio la città di Bergamo, dove la presenza ai seggi non riesce ad andare oltre il 36 per cento, sempre sopra la “soglia psicologica” del 34 fissata alcuni giorni fa dal governatore Roberto Maroni, ma traducibile in una “presa” dell’idea autonomista per solo un cittadino-elettore su 3, non certo i numeri del trionfo veneto.

E ancora di più vale il discorso per Milano, sempre più isola in mezzo al “mar di Lombardia”. Nella città metropolitana i presenti alle urne sono stati poco più del 31 per cento, mentre nel territorio comunale sono scesi addirittura al 26,84 per cento. In questo scenario Milano si porta dietro la provincia di Pavia (33 per cento) e cittadine come Sesto San Giovanni (28,4) che pure con la matrice storica di sinistra di recente è diventato Comune a guida di centrodestra.

L’ultima curiosità riguarda i Comuni con l’affluenza più bassa. In Lombardia è Lavena Ponte Tresa, in provincia di Varese, dove il quorum non ha saputo acciuffare neanche il 20 per cento (19,5) e il perché riguarda forse il fatto che si trova a un centimetro dal confine con la Svizzera. In Veneto invece è Soverzene, in provincia di Belluno, dove al seggio si sono presentati in 247, cioè il 23,3 degli aventi diritto. Da queste parti, d’altra parte, ci sono state le battaglie del Piave.

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