Donne solo mamme e figli solo alle donne. Sembra un po’ questa la dicotomia forzata che sta dietro alla dicitura “Dipartimento mamme”, affidato dal Pd a Titti Di Salvo. Una dicitura, è vero, ma non solo. Perché quella parola sostanzia gli stessi stereotipi che il Dipartimento vorrebbe superare. Prendendo per buono che dietro tale scelta ci siano stati i migliori intenti, ci sono diverse cose da aggiustare.

La prima è proprio il nome: lo avevo già scritto in un post precedente, commentando le tre priorità renziane (lavoro, casa, mamme). A un orecchio attento, la retorica renziana finisce dal momento in cui si sceglie di parlare di mamme, laddove essere mamme è una condizione, mentre la maternità è un diritto. Quindi, se l’obiettivo del Dipartimento è quello di porre l’accento sulle ricadute socio economiche del diventare madri, ovvero sulla mancanza di diritti, allora il termine è sbagliato perché le donne, sul lavoro, sono discriminate in quanto donne e a prescindere dalla maternità.

Le pressioni che le madri ricevono in ambito socio lavorativo sono innegabili ma sono anche una conseguenza delle discriminazioni subite dalle donne in quanto tali e del ruolo in cui sono confinate a prescindere dall’avere o meno figli. La stessa fertilità è oggetto trasversale di molti colloqui di lavoro, indipendentemente dall’essere già madri o dal poterlo solo diventare.

La seconda è l’isolamento in cui questa parola ci confina: c’è un limite nel pensare che le discriminazioni legate alla maternità riguardino solo le mamme. E’ innegabile che le donne, una volta diventate madri, subiscano ancor più discriminazioni nella vita sociale, politica e lavorativa. Ce lo racconta bene Save the Chirdren nel suo ultimo rapporto “Le equilibriste” . Ma la questione non si risolve se manca una visione di insieme.

Il problema è collettivo, coinvolge gli uomini, la società e persino le donne che hanno scelto di non diventare madri, perché troppo spesso stigmatizzate per la loro scelta. E proprio perché collettivo, non si può affrontare se non inserito in un contesto più ampio, che parli di diritti di tutte e di tutti, che racconti la parità di genere a patire dal linguaggio, che produce effetti ghettizzanti se pensiamo al termine mamme nella sua eccezione più anacronistica.

La terza è la discriminazione: il dipartimento Mamme è discriminante verso i padri, da sempre estromessi nel ruolo genitoriale, che invece è centrale non solo per ovvie ragione affettive e di crescita dei figli, ma anche per tutto il tema della conciliazione lavoro famiglia. Quest’ultima, laddove manca, ha inevitabili ripercussioni in primis sulla donna. In sintesi, parlare dei diritti delle madri, estromettendo la figura dei padri dal contesto familiare, significa perdere in partenza perché gli uni si sostanziano con gli altri.

Significa avvalorare l’idea che il padre, quando c’è, è di supporto (“mio marito mi aiuta”) e invece il papà non è un aiuto ma l’altra metà del tutto. Il riconoscimento della parità dei ruoli genitoriali è quello che serve, e quindi perché non pensare a un dicastero delle famiglie? Dove lasciare spazio non solo alla figura del padre, ma anche delle coppie di padri o madri che formano le famiglie plurali?

Infine, la quarta obiezione è l’assolutezza di questa scelta: l’attenzione dello Stato nei confronti della famiglia e delle famiglie è necessaria e sacrosanta, ma per essere universale (come i diritti dovrebbero essere) non può rivolgersi solo a una componente del nucleo familiare, scegliendo per di più a priori e per conto nostro quale essa sia. A questo dipartimento è mancato dunque il coraggio, quello di estrapolare una volta per tutte la parola “mamma” dal suo isolamento e di inserirla laddove si parla di welfare, economia, salute, lavoro, ambiente.

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