Quando, alla domanda “Cosa fai nella vita?”, rispondo con diaframma ben impostato “Il cuoco a domicilio”, sul viso del mio interlocutore affiora uno sguardo un po’ smarrito simile a quello degli gnu dei documentari che cercano di capire se quel coso che li osserva è un predatore o un boh?

Si badi, ho scritto “cuoco”, non “chef”. So bene chi e cosa sia uno chef, è un’etichetta di cui si abusa spesso ma che merita rispetto, al di là dell’avanspettacolo contemporaneo. Al massimo io sono uno “scièf”, come ormai mi autodefinisco smarcandomi dall’impettito ordine del discorso gurmé. Anche perché con le etichette ho sempre avuto un rapporto conflittuale: sono un fudbloggah e non un “foodblogger”, sono un supposter, non un “influencer”. Non me ne frega nulla dei vanitosi appellativi, anzi, preferisco storpiarli e prenderli con leggerezza per prendermi un po’ in giro, quel che conta è la sostanza di ciò che faccio.

“Quindi cucini a casa delle persone?”, è la consueta, seconda domanda di rito. L’altrettanto rituale risposta include un’affermazione e allega la specificazione del fatto che il mio non è un percorso convenzionale.

Mi sono formato in casa, studiando su decine di libri acquistati in blocchi, ma soprattutto, ho imparato provando e riprovando, tagliandomi e ustionandomi, consultando centinaia di ricette e osservando i fenomeni chimici e fisici che si realizzano in cucina in un meraviglioso processo alchemico. Ah, dimenticavo: e ho imparato anche cucinando nelle case degli altri, ogni volta in ambienti diversi con spazi diversi, strumenti diversi.

Ma come ci sono arrivato?

Fino a un anno e mezzo fa fotocopiavo le mie giornate nell’open space di un’azienda di e-commerce a Milano, città dove vivo tutt’oggi. In una sola settimana, alla fine del 2015, sono stato “sfrattato” dal mio ex padrone di casa e l’azienda ha annunciato un centinaio di tagli al personale, tra cui me. Così, in quello che sembra il copione di un film, dal vivere da solo sono tornato alla condivisione in un appartamento, come all’università, ma soprattutto ho deciso di investire su me stesso ripartendo dalle mie passioni – la cucina, la scrittura, la musica – abbandonando definitivamente l’idea di devolvere tempo ed energie a qualche altra società che mi considera come un costo a libro paga e un semplice numero all’interno di una ristrutturazione aziendale. E tutto ciò a 33 anni, quando i miei amici stanno mettendo su famiglia.

Ma a fare lo Scièf a domicilio non c’avevo mai pensato, neanche quando mi hanno silurato. M’è capitato per caso. È partito tutto nel 2012 dal mio blog, www.uomosenzatonno.com e da cui è nato il mio alter ego: tutti mi conoscono come L’Uomo Senza Tonno. Un giorno una mia Follouà – tradotto: una mia follower sui social – mi contatta per chiedermi se fossi disposto a cucinare per lei e i suoi invitati a casa sua. Senza troppi patemi d’animo ma, soprattutto, senza sentirmi pronto a fare qualcosa di così inedito per me, ho accettato e da lì si è innescato (ho innescato?) il passaparola sui social.

Fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile per me fare una cosa simile senza sentirmi del tutto sicuro ma la perdita di casa e lavoro a distanza così ravvicinata sono stati uno schiaffone non da poco che mi ha indotto a rigettare la paura di fallire e mi ha svegliato dal cotonato sogno dell’idealizzazione di un Futuro Programmato, quella visione che viene inculcata a noi tutti fin da bambini quando ci veniva posta la fatidica domanda: Cosa vuoi fare da grande?

Sarò onesto, forse non so più cosa voglio fare da grande, ho imparato a seguire il mio istinto e a vivere giorno per giorno, ma in tutto questo ho fissato un obiettivo chiaro e preciso: voglio fare un lavoro che mi faccia sentire soddisfatto di me stesso. E la cucina, oltre a darmi speranza, è diventata un mezzo per arrivare al traguardo.

Dopo le prime due domande, nelle conversazioni, solitamente arriva la terza, l’Immancabile. Sempre con la stessa costruzione sintattica, senza verbi, fatta di 4-parole-quattro: “Perché Uomo Senza Tonno?”. La risposta a questo quesito ve la do un’altra volta, adesso vi lascio con la ricetta di uno dei cavallucci marini di battaglia delle mie cene a domicilio: risotto con taleggio, capesante e scorza di lime.

Dosi per 4 persone

360 g di riso Carnaroli
1,5 l di fumetto di pesce (acqua, due carote, una cipolla, 2 gambi di sedano, una foglia di alloro, una piccola bietola, la lisca e la testa di un pesce, va bene una gallinella ma anche branzino o orata)
12 capesante
200 g di taleggio DOP
un lime
burro a sentimento
sale fino

In primis preparo il fumetto (o brodo che dir si voglia) con verdure e gli scarti del pesce. Tre quarti d’ora di ebollizione, filtro e aggiusto di sale.

Preparo la mise en place con tutti gli ingredienti: taglio il taleggio a cubetti avendo avuto premura di tenerlo fuori dal frigo per un paio d’ore. Stacco noci e corallo delle capesante dalle valve, le lavo e le tampono con della carta assorbente, trito il tutto lasciando intere solo 4 noci – ovvero la parte grigiastra. Grattugio la scorza di lime.

Nella mia fida risottiera di rame stagnato sciolgo il burro – io non faccio soffritto di cipolla o scalogno, né sfumo col vino – e tosto il riso. Non appena un lieve sentore biscottato si leva dalla pentola, aggiungo progressivamente il brodo a fiammanti colpi di mestolo. Tempo medio di cottura 16-18 minuti.

Due minuti prima di spegnere la fiamma, aggiungo le capesante tritate, che insaporiscono così il riso. In contemporanea, su un fornello scaldo una padella antiaderente senza aggiungere nessun grasso e scotto le noci di capasanta intere facendole imbrunire in superficie. Basta meno di un minuto da un lato, 30 secondi dall’altro.

Un minuto prima di spegnere la fiamma del riso, aggiungo il taleggio in modo che si sciolga del tutto e, a fuoco spento, manteco col burro. Aggiusto di sale.

Nel piatto da portata spolverizzo il riso con la scorza di lime.

Stay tuna

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