Che il Sole 24 Ore abbia gonfiato il numero delle copie vendute è ormai fuori discussione. Anche da ciò la perdita sul 95% per quei poveretti che avevano sottoscritto le sue azioni.

Ma non è mica la sola volta che l’organo di stampa di Confindustria gonfia i numeri. Sulla prima pagina del 20 febbraio, ad esempio, compare un ampio servizio, firmato Marco Lo Conte, a consuntivo dei dieci anni dal semestre di silenzio assenso per il Tfr, gennaio-giugno 2007. Leggiamo: “Fondo pensione batte Tfr 4 a 2. I versamenti alle gestioni di categoria hanno reso in media il 44% in più”. Potremmo smontare anche la prima affermazione, ma concentriamoci sulla seconda, che richiama esplicitamente i fondi pensione sindacal-patronali, quali Cometa, Fonchim, Priamo ecc.

Nel decennio inizio 2007-inizio 2017 in realtà 100 euro messi nei fondi sono diventati in media 138 rispetto a 125, se mantenuti nel Tfr. Lo attestano le performance riportate in “Dati di 1003 fondi e sicav italiani (1984-2015)” di Mediobanca e per il 2016 quelle comunicate dalla Covip. Quindi le gestioni di categoria non hanno affatto reso il 44% in più, bensì solo il 10,3%. Che corrisponde poi solo all’1% annuo.

Come arriva allora il Sole 24 Ore a quel fantasmagorico 44%? In parole povere dov’è l’imbroglio? Nello spacciare per rendimenti i versamenti aggiuntivi. Come dire che il mio conto corrente in banca ha reso il 50%, perché prima avevo 10mila euro e poi ne ho versati altri 5mila. È vero che ora ne ho 15mila, ma mica mi ha reso il 50%. Il di più non sono interessi, plusvalenze o simili, ma soldi aggiunti. Solo andando a leggere una nota di un grafico del Sole 24 Ore, composta in caratteri piccoli, si scopre come stanno le cose.

Certo che ad alcuni risulta nel fondo una somma nettamente più alta rispetto al Tfr accantonato da chi non ha aderito. Ma ciò dipende soprattutto dai soldi in più, versati da loro stessi e dai datori di lavoro, fra l’altro a discapito di quanti non hanno aderito. È il cosiddetto contributo datoriale che comunque, cosa regolarmente taciuta, è sicuro al massimo per quattro anni.

Per chi poi ancora lavora, il vantaggio è solo contabile. È tutto da vedere se la situazione non si ribalterà prima della pensione, perché i tassi di mercato congiurano a favore dei Tfr e contro la previdenza integrativa. La quale comunque è fiscalmente davvero conveniente con redditi alti e in prossimità della pensione. Non per i giovani, che saggiamente ne stanno alla larga.

Ultima cosa: mi hanno segnalato che quell’articolo del giornale della Confindustria è stato affisso da premurosi sindacalisti nelle bacheche aziendali e diffuso per e-mail. Non è la prima volta che ciò capita e soprattutto non stupisce, visto che sindacati e associazioni imprenditoriali si spartiscono fra di loro le poltrone dei fondi pensione chiusi o negoziali (presidenze, organi di gestione ecc.).

Riceviamo e pubblichiamo la replica di Marco Lo Conte, giornalista de il Sole 24 ore e autore dell’articolo citato

E’ molto semplice smontare le critiche che Beppe Scienza nel suo blog pubblicato sul Fatto Quotidiano rivolge a un mio articolo dedicato ai dieci anni dei fondi pensione. Un articolo basato su un’elaborazione la cui descrizione Scienza sostiene di trovare solo a corredo dell’infografica (“scritto in piccolo”), ma che in realtà è presente anche nelle prime righe del mio articolo (che forse Scienza non ha letto): qui spiego che per verificare quale scelta sulla destinazione della liquidazione sia stata più remunerativa, abbiamo identificato “le posizioni di quattro ipotetici “gemelli”, che 10 anni fa hanno destinato il Tfr rispettivamente: in azienda o allo Stato (in caso di azienda con oltre 50 dipendenti), a un fondo negoziale, a un fondo aperto o a un Pip a gestione separata. Quindi abbiamo calcolato il montante prodotto dalla rivalutazione dei contributi versati alle diverse forme e preso in considerazione la media annua dei rendimenti di ciascuna forma previdenziale, oltre che i tassi di rivalutazione della “liquidazione” in questi decenni”. E’ un’elaborazione, non un dato reale, ma è la cosa che più delle altre si avvicina a quanto accaduto ai portafogli dei lavoratori in questi dieci anni. Il risultato? Il Tfr in azienda (o allo Stato) in dieci anni si è rivalutato fino a 23.120 euro, a un fondo negoziale comprendendo il contributo datoriale e volontario dell’1% ciascuno a 33.406 euro, senza contributo datoriale e volontario destinato 28.900, a un fondo pensione aperto a 25.970 euro e a un Pip a gestione separata.

Calcoli alla mano, la somma di 33.406 euro è superiore del 44,5% rispetto alla somma di 23.120 euro, e del 25%, se si esclude dal calcolo l’apporto derivante dal contributo del datore di lavoro. Semplici calcoli matematici, nessun numero “spacciato”, nessun “imbroglio”. Termini che prefigurano da soli la fattispecie di diffamazione aggravata, ma io preferisco far leva sulla forza delle idee e dei numeri. Per esempio: incuriosisce la sottolineatura di Scienza sul fatto che i contributi datoriali sono certi solo per 4 anni. Perché 4 anni? Perché i contratti di lavoro hanno in genere vigenza per questa dimensione temporale. Ma se è per questo posso anche essere disdettati o andare in prorogatio anche per molto tempo. E’ invece un fatto che, in questi ultimi dieci anni la quota datoriale è quasi sempre cresciuta ad ogni rinnovo contrattuale.

Quando non ci si cura dei particolari, sbagliare diventa più facile, come nella contro-elaborazione di Scienza: un portafoglio equamente bilanciato fatto da uno strumento (ma quale? con che costi?) che replica l’indice Morgan Stanley World e i BTp – ma quindi poco diversificato e quindi più rischioso – porta a un rendimento del 54% non del 50%. Da un professore di matematica ci si potrebbe attendere di più. Più che della cilecca dei fondi pensione Scienza (ma davvero è il suo nome?) si potrebbe occupare di quella della sua calcolatrice.

P.S. Evidentemente l’ansia di accomunare questa elaborazione a una vicenda aziendale di cui il sottoscritto, gli altri colleghi della redazione e i dipendenti del Sole 24 Ore sono vittime, ha giocato un brutto scherzo a Beppe Scienza. Come i lettori del Fatto Quotidiano sanno bene, io e miei colleghi siamo parte lesa in una vicenda che abbiamo denunciato nelle sedi opportune, in tempi non sospetti, arrivando a sfiduciare mesi fa colui che ora è il nostro ex direttore. Per quanto mi riguarda le critiche sono ben accette se costruttive, inevitabili in tutti gli altri casi, tuttavia il requisito della fondatezza non è un orpello esornativo ma indispensabile.

Risposta del blogger

Nei titoli dell’articolo e del grafico il 44% è riferito testualmente “alle gestioni di categoria” e alle “performance % delle diverse tipologie di fondi”, con impatto prevalente su una noticina e precisazioni nell’articolo. Ma per il Sole 24 Ore il conflitto d’interessi è insanabile e duplice: per legge gli imprenditori si accaparrano metà degli organi dei fondi pensione chiusi e questi poi possono impiegare fino al 20% del risparmio previdenziale dei lavoratori (non degli imprenditori) per comprare titoli di aziende del settore, possibilmente decotte.

Controreplica

Evidentemente Scienza non sa che le fonti datoriali non gestiscono direttamente l’operatività dei fondi pensione ma sono le direzioni finanziarie di questi ultimi che, a seguito di bandi di gara, affidano la gestione dei contributi del lavoratori a società di gestione del risparmio (Sgr). La circostanza per cui l’azionista del Sole 24 Ore è fonte istitutiva dei fondi pensione, non comporta automaticamente che i fondi facciano trading acquistando o vendendo società “decotte” o “in salute”, proprie o di amici. In caso ciò fosse accaduto, sarei il primo a essere interessato a scriverne, con dovizia di dettagli, nomi e numeri. Accusarci di conflitto di interesse senza indicare né il conflitto né l’interesse è solo esercizio retorico.
Cordialmente,
Marco lo Conte

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