foto © Leonello Bertolucci

Era nell’aria: perfino il World Press Photo ne ha preso atto annunciando la sua apertura verso un fotogiornalismo che può essere ricostruito ex post, ed ecco nel suo sito comparire parole come “creativo” e “storyteller”.
Non entriamo nuovamente nel merito di una discussione infinita, vera guerra ideologica, tra chi ritiene il reportage testimonianza diretta e chi invece accetta il “verosimile ma onesto” come sufficiente a certificare il risultato.

I primi rivendicano il patto non scritto tra fotografo e lettore legato a “io c’ero e quello che mostro è realmente accaduto davanti ai miei occhi in presa diretta sui fatti” (pur con tutti i limiti di un prelievo così frammentario e soggettivo).

I secondi trovano altrettanto valida, sul piano informativo, una realtà “di rimbalzo”, ricostruita e addomesticata dal fotografo che però ne garantisce l’aderenza e la rappresentatività rispetto alla realtà di cui è proiezione, anzi ancora più chiara perché frutto di una lucida e meditata visione sui fatti stessi, che vengono esposti in modalità “ti racconto quello che ho visto”, ben diverso però da “ti mostro quello che ho visto”.

Ma questa tendenza verso la fotografia staged, posata, organizzata, pianificata, postprodotta, registica, che sempre più invade il reportage non è solo una moda, ha ragioni precise. Tra queste il trasloco dalle pagine dei giornali verso un emisfero fine-art da parte dei fotogiornalisti ormai economicamente allo stremo per un mercato editoriale che non assorbe, non apprezza e non paga il loro lavoro, costretti a cercare giocoforza nuovi spazi per le loro foto di reportage sui muri delle gallerie d’arte e a casa dei collezionisti.
In altri casi, poi, è una scorciatoia per superare i limiti oggi imposti al reportage dalle stringenti leggi sulla privacy: con soggetti che posano come modelli, e relative liberatorie scritte, il problema non si pone.
Se lo vogliamo aggiungere, va pure detto che a volte col reportage sul campo si rischia la pelle, e anche su questo versante la “realtà riprodotta” può fornire un utile salvacondotto verso l’incolumità.

Fin qui un succinto (e incompleto) quadro della situazione.

Poi succede, pochi giorni fa, d’imbattermi casualmente in un articolo che parla del “pensiero magico”. Il quale sarebbe alla base di molti dei nostri comportamenti, sia individuali che collettivi, e avrebbe contribuito a formare la civiltà umana così come oggi la conosciamo. “Assunto fondamentale del pensiero magico è l’idea di poter influenzare la realtà secondo i pensieri e i desideri personali” (da Wikipedia).
Orbene (urca, non usavo la parola orbene da anni!), e se ci fosse allora lo zampino del pensiero magico anche nella nostra questione?

L’adulto, come il bambino, continua per tutta la vita a costruirsi mentalmente mondi fantastici a cui si autoconvince di credere perché ne ha bisogno, perché ne trae piacere e conforto.
I pubblicitari lo sanno bene, e qui giocano gran parte della loro partita. Ma prima ancora l’arte ha sempre rappresentato il luogo privilegiato ed elettivo per tutto questo, mentre la fotografia di reportage, che arte non è mai stata considerata (per fortuna, aggiungiamo; fortuna per la fotografia, beninteso), questa deriva non se la poteva permettere né, soprattutto, la andava cercando.
Ora le cose stanno cambiando – che piaccia o meno – e il pensiero magico entra nel reportage: il processo dell’informazione visiva diventa: “Sono convinto (onestamente, per carità!) che le cose stiano così e così le rappresento, in un teatro della vita di cui sono più regista che testimone”.

D’accordo, non si può fermare il vento, nei contest legati al fotogiornalismo vedremo lo stesso tipo di foto che finora erano scartate con ignominia (premi ritirati, polemiche, giustificazioni, ecc.), ma resta un dubbio: mentre la foto di un fatto ha qualche possibilità di essere indagata rispetto a ciò che asserisce di testimoniare (anche se non sempre), la foto “immaginata” come racconto della realtà richiede invece un tasso di fiducia che sfocia nella fede.

Che poi si può tranquillamente obiettare come, a ben guardare, in tempi remoti meno caratterizzati dai molti nervi scoperti di oggi, questa “realtà ruminata” fosse già diffusa e accettata, ma a condizione di un prerequisito: l’autorevolezza e l’affidabilità riconosciute all’autore. Cosa che oggi non sempre avviene…

Accostare il concetto di pensiero magico alla parola reportage crea una vertigine e un brivido, ma poi, in fondo, sul crinale di queste due sponde potrebbe arrivare paradossalmente la icastica definizione di Ferdinando Scianna (e stiamo parlando di un fotografo della Magnum, con tutto quello che significa) quando afferma: “Una foto mostra, non dimostra”.
Il senso di questo aforisma è molto chiaro e definitivo, oltre che incontrovertibile, ma ora ne spostiamo consapevolmente un po’ la direzione per riallinearlo forzosamente al nostro tema.
Eccolo dunque, il pensiero magico in chiave fotografica: mostrare senza dimostrare. Che, come si capisce, non è questione di oggi ma connaturata al Dna stesso della fotografia tutta, reportage compreso.

Dentro al pensiero magico nel reportage c’è dunque un “vorrei ma non posso”?
E’ insomma, questa virata, un trionfo della consapevolezza o una resa codarda?

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