Cinque mesi di soprusi, minacce, botte: è l’incubo che ha dominato L.C. e che lui stesso racconta, per la prima volta, con parole calme e misurate, quasi quei fatti evocati non lo riguardassero. I sette presunti persecutori – residenti tra Verona e Varese e originari della provincia di Crotone – sono ora indagati, e tre di loro in carcere, per estorsione, truffa e riciclaggio. La vicenda coinvolge membri della famiglia Giardino, imprenditori originari di Isola Capo Rizzuto e gravitanti da un ventennio a Verona, dove sono stati coinvolti in diverse inchieste giudiziarie, dalle quali emergono fra l’altro rapporti con il sindaco Flavio Tosi. Incontriamo L.C., imprenditore del terziario, nella pacchianissima hall del Gardaland Hotel a due passi da Bussolengo, Sona, Sommacampagna, San Martino Buonalbergo, paesi compresi nell’epicentro dell’insediamento ‘ndranghetista nel veronese.

La storia inizia diversi anni fa quando L.C. conosce D. M., imprenditore edile titolare della So.co.ama. srl. “Me l’ha presentato un imprenditore noto in zona che è anche mio cliente e che mi ha assicurato della sua onestà. Solo dopo ho capito che il mio cliente me l’ha presentato per pagare un pegno perché a sua volta estorto” racconta L.C. Per 5 o 6 anni la conoscenza con l’imprenditore convince L.C. che si tratti di una persona affidabile. “Mi raccontava delle amicizie che aveva nella politica veronese e io pensavo che si trattasse di una garanzia di onestà” sorride amaro.

Anche negli affari D.M. poteva vantare appalti con grosse ditte e lavori importanti all’estero. “Era attorniato da persone credibili che creavano una cortina fumogena di legalità” racconta il nostro interlocutore spiegandoci così perché accettò di entrare in affari con lui investendo 430mila euro e ricevendo in garanzia un terreno. Inizia così una storia intricata, una truffa ben congegnata, un variopinto gioco delle parti condito da greve violenza.
L’affare proposto dall’imprenditore edile non va in porto, si scopre che il terreno era gravato da ipoteche e così L.C. pretende la restituzione della somma. “Inizialmente voleva rassicurarmi che in poco tempo avremmo risolto – ricorda L.C. -, l’unico problema, a suo dire, è che la famiglia Giardino ha dei suoi assegni a garanzia e vuole riscuoterli facendolo saltare in aria”.

“Dobbiamo sistemare i Giardino così sei a posto anche tu” propone l’imprenditore che nel frattempo rifila a L.C. un assegno, firmato dallo zio, rivelatosi scoperto. L’evocata famiglia Giardino a quel punto interviene: Alfonso, “il vero capo famiglia”, e Francesco, assicurano L.C. che avrebbe avuto i soldi indietro a patto di assoldare Rosario Capicchiano, “dipinto come persona autorevole in grado di sistemare le cose”. “Capicchiano inizialmente propone di accollarsi il credito – sintetizza L.C – poi cambia idea e pretende degli assegni, 400mila euro, a garanzia per la sua mediazione”. E’ quando Capicchiano cerca di riscuotere gli assegni, non coperti, che iniziano le violenze, “ed io ero sotto scacco perché temevo il protesto dato che l’assegno era scoperto” spiega l’imprenditore veronese.

Inizia così, per cinque lunghi mesi, un rosario di minacce e violenze. “’Se non paghi finirai a far compagnia ai vermi’ mi ha urlato un giorno Alfonso Giardino” ricorda L.C. che conserva nella mente anche l’episodio in cui Alfonso Aloisio esibisce una pistola o quando Capicchiano gli molla un ceffone o ancora quando viene “preso per il bavero ricevendo dei buffetti non benevoli”. Viene esibita l’appartenenza ‘ndranghetista per incutere timore, “Capicchiano mi veniva presentato come un importante boss da poco uscito di galera”. Cosa vera in parte: Capicchiano in galera c’è stato, ma per una volgarissima rapina in un locale del veronese in cui si è sfiorata la tragedia. Un criminale sì, ma non certo un boss. “Una volta ho incontrato Capicchiano – racconta L.C. – in compagnia di un avvocato emiliano e questo mi ha assurdamente confortato, come se potessero essere in fondo delle persone per bene visto che frequentavano il mondo ‘ufficiale’”.

“Mi facevano sempre credere che la soluzione fosse dietro l’angolo” ci racconta L.C. che confida come si sia liberato da questo incubo solo cominciando a confidarsi con le persone a lui care. “Loro facevano leva sulla mia vergogna a rivelare che cosa fosse successo e mi dicevano di non dire niente a nessuno, così rimanevo solo con quest’incubo. Ogni giorno speravo che finisse senza che nessuno lo venisse a sapere” ci spiega.
E’ poi finita nel giugno di quest’anno con l’intervento della Guardia di Finanza che ha portato a termine l’operazione, coordinata dalla procura scaligera, chiamata Premium Deal, che coinvolge i personaggi citati da L.C. Tra i reati ipotizzati, però, non compare il 416 bis, l’associazione a delinquere di stampo mafioso e nemmeno l’aggravante del metodo mafioso.

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