“Immaginate di svegliarvi una mattina e di scoprire che improvvisamente il vostro passato è scomparso, sparito, finito chissà dove”. Dopo più di 20 anni passati tra le corsie dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma come primario di Geriatria, Luisa Bartorelli non ha smesso di prendersi cura dei suoi pazienti. Anzi, ha dato vita ad un progetto semplice e innovativo, dal nome Caffè Alzheimer. Un luogo dove si incontrano malati e familiari, volontari e specialisti, due volte al mese, per stare insieme, bere qualcosa, scambiarsi due chiacchiere e rafforzare “la visione positiva della malattia”.

I primi Caffè Alzheimer sono nati in Olanda alla fine degli anni ’90; poi le sperimentazioni sono partite in Inghilterra e Francia. In Italia, invece, sono arrivati grazie anche al lavoro della dottoressa Bartorelli, insieme alla sua associazione Alzheimer Uniti Onlus. “Siamo nati all’inizio degli anni ’90 – racconta il primario – proprio dalla volontà di collaborazione di un gruppo di famiglie disperate dell’ospedale Sant’Eugenio”. Operatori del settore e familiari di malati hanno deciso di mettere insieme le proprie forze per assistere meglio, e al meglio, i propri cari, dando loro spazi di libertà fondamentali.

“Siamo nati all’inizio degli anni ’90 proprio dalla volontà di collaborazione di un gruppo di famiglie disperate”

“La nostra visione è semplice: vogliamo trattare i malati come persone normali, tutto qui”, spiega Bartorelli. I Caffè Alzheimer si fanno 2 volte al mese, e partecipano in media 20 persone, tra malati, operatori del settore e volontari dell’associazione. “Ne abbiamo aperto proprio uno qualche sera fa – aggiunge la dottoressa – in un’enoteca a Monteverde. All’improvviso è spuntata fuori una chitarra e qualcuno ha cominciato addirittura a ballare”.

L’appuntamento ogni 15 giorni è rigoroso non solo per i malati, ma anche per i caregiver, coloro che li assistono nel quotidiano. “Spesso ci troviamo di fronte a situazioni non gravissime, in cui si ha bisogno solo di parlare un po’. Il tutto è concepito in un senso più ricreativo che pedagogico – spiega la dottoressa Bartorelli – ma è fondamentale, in casi come questi, far passare il messaggio giusto, legato al movimento, alla positività”. In più, i malati hanno l’occasione di cimentarsi con memory training, come quelli di Giovani nel tempo, veri e propri giochi da tavola creati ad hoc, rigorosamente “dai 120 anni in giù”.

La durata di ogni incontro è di circa due ore. Ma la sorpresa più bella è sapere che alcuni malati, insieme alle rispettive famiglie, si vedono anche al di fuori degli appuntamenti prestabiliti. E tra i vari Caffè sparsi nella capitale (ad oggi se ne contano 5) uno era proprio in via dei Prefetti, nel centro storico. “Qui si alternavano musicisti dell’accademia di Santa Cecilia e altri artisti, che venivano a suonare e a recitare proprio per i malati e le loro famiglie – racconta Bartorelli –. Quello spazio, però, ha chiuso recentemente perché tutto lo stabile è stato venduto”.

“Una paziente, una volta, mi ha preso per mano e mi ha sussurrato: ‘Mi dimentico tutto, ma di lei non riesco proprio a dimenticarmi”

Ma non è tutto. Spesso i malati sono stati protagonisti di vere e proprie visite al museo, con tanto di accompagnamento e spiegazione personalizzata. “Nelle passate settimane abbiamo deciso di visitare insieme la Galleria Doria Pamphilj – ricorda ancora il primario – . Abbiamo scelto con cura 4 dipinti da vedere e analizzare”. La risposta dei malati è stata sorprendente: “Si vedeva chiaramente che erano stati toccati dalla bellezza di quelle opere. In tanti sono rimasti davvero colpiti di fronte al Caravaggio e ai ritratti dei Papi”, conclude.

La chiave, insomma, sta nel cambiare punto di vista di fronte alla malattia. “Abbiamo deciso di dar vita a questi appuntamenti proprio perché troppo spesso le famiglie si sentono isolate – conclude la dottoressa – . C’è ancora paura, unita a un senso di pudore intorno a questa malattia. Per capire è essenziale mettersi al posto dei malati, comprenderli e cercare di immedesimarsi in loro”. Il ricordo  più bello? “Una paziente, una volta, mi ha preso per mano e mi ha sussurrato: ‘Mi dimentico tutto, ma di lei non riesco proprio a dimenticarmi”.

Articolo Precedente

Sicilia, se il turismo deve ringraziare il terrorismo

next
Articolo Successivo

Gruppo Bilderberg, in risposta a Franco Ferrari

next