Ormai da un paio di anni, con la sicumera di chi ha profuso un immane sacrificio, la politica racconta che una legge (la numero 13/2014) ha eliminato i rimborsi pubblici ai partiti. Forse per distrazione, ancora la politica omette di precisare che, piuttosto, la stessa legge ha abolito la trasparenza sui donatori privati dei partiti: semplici cittadini o famelici imprenditori che scelgono di finanziare le campagne elettorali. Non è un effetto collaterale. Ma un disegno, per niente astratto, che in questi giorni si manifesta appieno. La Camera è invasa da una caterva di ricevute, spedite con solerzia dai tesorieri, per segnalare bonifici e assegni che oscillano da poche migliaia di euro a decine di migliaia. E molti documenti contengono una postilla: dichiarazione unilaterale. Cioè anonima. Il meccanismo è semplice. Chi riceve il denaro, annota. Chi lo elargisce, scompare. Per un utilizzo pretestuoso della privacy e per un trucchetto della politica. Perché succede adesso? Per due motivi. Il primo. Con l’iscrizione dei partiti nel registro del Parlamento (l’ultima del 30 novembre riguarda i dem), la norma è attuata. Il secondo. Il voto a Milano oppure a Torino, a Napoli e Cagliari, è ormai prossimo. Per scoprire cos’è accaduto, l’intricata vicenda – fra cavilli, pareri e artifici – va ricomposta dal principio.

Questa legge ha un difetto congenito. Per sedare i cittadini disillusi da sprechi e ruberie, durante le festività natalizie del 2013, il governo di Enrico Letta ha approvato un decreto per spazzare (con calma, nel 2017) il sostegno pubblico ai partiti. Oltre a introdurre metodi per reperire risorse con il duepermille e con altri stratagemmi, la politica ha diluito i controlli sui benefattori. Quelli che con contributi volontari, per nobili affinità ideali o per più sfacciati interessi, versano soldi ai partiti per strappare un Municipio di una città o uno scranno in Parlamento. Il governo Letta prescrive trasparenza: il limite è fissato a 100.000 euro; la diffusione è ovunque, nei bilanci (ovvio) e nei siti istituzionali. Il decreto scivola verso un’agevole conversione in Parlamento. Ma due eventi ne modificano il percorso. Il sindaco Matteo Renzi, già segretario dem, spodesta Letta. L’ex capogruppo dem Antonello Soro, un dermatologo di mestiere promosso a Garante della privacy, interviene per suggerire un emendamento agli ex colleghi riuniti in Commissione. Il messaggio non è parecchio intellegibile, viene menzionato nella relazione di fine anno dall’Autorità. Il significato: il donatore non va svelato se non firma il consenso al trattamento dei riferimenti personali. Soro rivendica la prontezza di riflessi: “Il garante ha presentato al parlamento e al governo una segnalazione”. Che fa il parlamento? Accoglie con un’ovazione la proposta di Soro.

Il governo di Renzi non ha ancora giurato, ma il fiorentino celebra la conquista. Così il comma 3 dell’articolo 5 si trasforma in un pastrocchio impenetrabile persino al leguleio più esperto. Perché vale la privacy? “Ai sensi degli articoli 22, comma 12, e 23, comma 4, del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. Con decreto del ministro dell’Economia e delle finanze, da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro due mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono individuate le modalità per garantire la tracciabilità delle operazioni e l’identificazione dei soggetti di cui al primo periodo del presente comma”. Ma per sfruttare il lodo di Soro, la politica ha aspettato l’iscrizione nel registro dei partiti dalla Commissione di Garanzia, nominata, dimissionaria, nominata ancora. A fatica, a dicembre, la Commissione ha completato l’elenco. Da quel momento in poi, le donazioni coperte da anonimato sono aumentate.

Questa è la Commissione tecnica che non ha esaminato i rendiconti dei partiti e poi ha preteso di bloccare i fondi statali. Finché la politica, sotto la regia del Nazareno (il dem Sergio Boccadutri), ha strappato una deroga. Parliamo sempre del testo 13/2014. Se impone delle regole, la politica si sottrae. Se offre delle scappatoie, la politica esulta. E la privacy è diventata una questione inderogabile. Per caso, solo per caso, ora i donatori chiedono di non apparire. Il Pd l’ha precisato nell’ultimo bilancio. Quello che occulta i cenoni di finanziamento; a Roma l’ospite speciale era Salvatore Buzzi, braccio sinistro di Massimo Carminati er cecato. Il dettaglio (a chiamarlo dettaglio…) più beffardo: la legge 659 del 1981, sempre in vigore, impone le “dichiarazioni congiunte” da inviare a Montecitorio. Nessuna privacy. Il partito comunica quando, quanto e da chi ha incassato il denaro. Ma la politica preferisce la legge più recente. Chissà per quale ragione.

da il Fatto Quotidiano del 13 febbraio 2016


Riceviamo e pubblichiamo dal Garante per la privacy Antonello Soro

In un articolo su il Fatto Quotidiano (13 febbraio), Carlo Tecce mi attribuisce un ruolo centrale nel disegno ordito (da chi?) per eludere i controlli della pubblica opinione sui finanziatori dei partiti.

Ricordo che l’Autorità Garante per la protezione dati agisce attraverso i provvedimenti di un organo collegiale, notoriamente composito per competenze e riferimenti culturali, e soprattutto in totale indipendenza dalle istituzioni di governo.

Nè a questo fine ha mai recato pregiudizio la mia storia personale, per molti decenni vissuta nelle Assemblee legislative, non molto diversa da quella di tanti esponenti delle istituzioni che in questi anni si sono alternati alla guida degli organi di garanzia previsti dal nostro ordinamento repubblicano.

Tecce dovrebbe chiarire prima di tutto a se stesso quale sia l’obbiettivo della sua indignata denuncia contro l’uso della privacy ai fini di un complotto contro la trasparenza del finanziamento dei partiti . È il codice per la protezione dei dati personali? Il legislatore dovrebbe modificare la norma, in quel codice contenuta, che tutela come dato sensibile l’orientamento politico delle persone?

Temo che troverebbe qualche difficoltà perché andrebbe in contraddizione con la Direttiva europea in materia di protezione dati. E il nuovo Regolamento in fase di approvazione conferma la speciale tutela. Vigente questa legge, spetta al Garante segnalarne le eventuali violazioni ed opporsi alle stesse.

Nel merito. Il tema della pubblicità del finanziamento ai partiti riguarda la privacy essenzialmente sotto un profilo. La scelta di erogare contributi a movimenti o partiti può rivelare (sia pur non necessariamente) l’orientamento politico del donatore e, pertanto, l’informazione sul contributo fornito a un determinato partito si considera dato sensibile e come tale meritevole di una tutela rafforzata.

Tra le garanzie previste, in linea generale, per questa particolare categoria di dati vi è anche la subordinazione della loro diffusione (in particolare sul web) al consenso (scritto) dell’interessato, al fine di rimettere a lui la valutazione sull’opportunità (e i rischi) del rendere noto a chiunque il proprio orientamento politico.

Così, nel decreto-legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti si è ragionevolmente subordinata al consenso dell’interessato l’ammissibilità della pubblicazione in rete (sui siti del Parlamento e del partito) del contributo superiore ai 5.000 euro e comunque inferiore ai 100.000 (soglia oltre la quale scatta l’obbligo ineludibile di dichiarazione congiunta alla Camera, da parte di partito e finanziatore). Questa precisazione è stata introdotta in conversione, raccogliendo l’invito formulato dal Garante con apposita segnalazione.

Ciò non vuol dire, tuttavia, che in assenza di consenso il dato sull’erogazione del contributo sia “segreto” e che quindi non vi possano essere controlli sulle fonti di finanziamento: tutt’altro. Esso, infatti, dovrà essere reso noto, unitamente alla documentazione contabile, dal partito alla Presidenza della Camera, fermo restando che esso dovrà comunque essere effettuato con modalità tali da garantire la tracciabilità dell’operazione e l’identità dell’autore.

Le modalità per realizzare tali garanzie di tracciabilità avrebbero dovuto essere previste con decreto ministeriale da emanarsi entro due mesi dall’entrata in vigore del decreto-legge, ma così non è stato.

Come sa anche Tecce, il Garante non adotta decreti.

Il Garante conferma che le donazioni non solo vengono occultate, ma non sono neanche tracciate e sposta sul governo la responsabilità del mancato ufficio. Vorremmo peraltro ricordare allo stesso che in una democrazia avanzata, antica e attenta alla privacy come quella inglese, sul sito della “Electoral Commission” si rintracciano tutti i donatori sopra le 1.000 sterline l’anno, non sopra i 100mila euro.
C.T.

Articolo Precedente

Risparmi possibili, Camera e Senato provano a razionalizzare: dal ruolo unico degli eletti all’unificazione dei servizi

next
Articolo Successivo

Finanziamenti alla politica : il giudice Vivaldi abbandona la Commissione di controllo sui bilanci dei partiti

next