Downton Abbey è storia di servi e padroni, e sappiamo che gli uni stanno rispetto agli altri in rapporto diseguale, a volte conflittuale, ma in fondo di reciproca dipendenza. Lo smisurato palazzo, anzi la magione immersa nella campagna dello Yorkshire (l’equivalente della Brianza) viene presentata come lo spaccato realistico e metaforico insieme della società inglese di inizio secolo, dove un nucleo di signori, meno di una decina di persone, viene accudito da una ventina e passa di servitori domestici, per non parlare dei fittavoli che mandano avanti le coltivazioni e gli allevamenti. Ce n’è quanto basta per farne zampillare mille vicende, storie, inciampi e conclusioni, attorno alla distinzione principale, quella fra sopra e sotto, fra il piano interrato, dove vive e opera chi serve e i piani alti dove staziona chi è servito.

La metafora è potente, perché siamo tutti discendenti recenti o di servi o di padroni e dunque la colleghiamo a storie, memorie e significati di ogni tipo. Ma è potentissima per gli inglesi che attorno alla “distinzione sociale” hanno costruito monumenti di narrativa popolare, da Jane Austen alle sorelle Bronte fino a Cronin e oltre. E siccome quei palazzi, costruiti col bottino dell’Impero e coi guadagni del commercio marittimo, e quei ruoli che li abitavano fanno tutt’uno col massimo della potenza inglese, si può capire perché la ITV, principale tv privata in Gran Bretagna, abbia prodotto lo sceneggiato (siamo alla quinta stagione) spendendovi una fortuna di scene e di scrittura. Con figure (il conte, la contessa, le cameriere personali, i valletti, il maggiordomo) dalla psicologia radicata nel tempo e nel luogo dell’azione, l’Inghilterra edoardiana del primo quarto del Novecento. Grazie a queste radici in Uk la serie è “popolare”, cioè conta su grandi ascolti. Ma siccome il “generalismo” degli uni non corrisponde sempre a quello degli altri, da noi lo stesso prodotto è “cult“, come la definisce la pubblicità di Mediaset, cioè piace molto ad alcuni e lascia assai freddi gli altri.

Tant’è che negli Stati Uniti l’ha trasmessa PBS, la rete culturale, mentre in Italia, dopo qualche stagione su Rete 4, è uscita dal perimetro generalista, finendo su La5, rete a bassa identità dove ci si reca per cercare prodotti specifici anziché per ritrovare compagnia. E qui i primi due episodi della sesta e ultima stagione se la sono cavata più che onorevolmente con l’1,5% di share corrispondente a circa mezzo milione di spettatori. Insomma, Mediaset, se non l’ha pagata troppo, non ha di certo perso i suoi denari. La morale show business della vicenda è che, accanto a quello per i prodotti buoni allo stesso modo per tutti (tipo House of Cards) e a quelli che interessano specifiche passioni (linea Discovery) oggi esiste nel mondo una spazio di mercato basato sull’intreccio fra il pubblico generalista all’origine e i degustatori “cult” altrove. A condizione, come appare chiaro a chi segue Downton Abbey, che si tratti di prodotti impreziositi da una fattura eccellente. E dunque costosi da far paura. Per cui, coraggio!

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