Boicottare l’accademia israeliana, a cominciare dall’istituto tecnologico Technion di Haifa, per il ruolo strategico che svolge nella ricerca militare e nello sviluppo delle armi israeliane. Così “fornendo – scrivono i promotori della Campagna Stop Technion nel loro appello – un indiscutibile sostegno all’occupazione militare e alla colonizzazione della Palestina”. All’iniziativa hanno aderito 168 accademici italiani, in solidarietà con la Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale d’Israele (Pacbi), declinazione del Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni (Bds), il movimento non violento nato dalla società civile palestinese nel 2005.

Gli accademici si dicono “profondamente turbati” dalla collaborazione di alcuni atenei italiani – il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino, l’Università di Cagliari (medicina), l’Università di Firenze (medicina), l’Università di Perugia, l’Università di Roma “Tor Vergata” e “Roma3” -, con il Technion. È grazie anche a tali collaborazioni accademico-istituzionali — questa l’idea chiave dell’iniziativa – che il vasto complesso militare-industriale israeliano funziona, proseguendo impunito nelle violazioni del diritto internazionale. Di conseguenza, “collaborare con il Technion significa rendersi attivamente partecipi del regime di occupazione, colonialismo e apartheid d’Israele e in questo modo essere complici del sistema di oppressione che nega ai palestinesi i loro diritti umani più fondamentali”.

Il Technion ha un rapporto “attivo e durevole”, documentano i promotori, con l’esercito e l’industria militare israeliana. È lì che è stato prodotto il Caterpillar “D9”, un bulldozer controllato “in remoto” e usato per demolire le case dei palestinesi. L’istituto collabora con le maggiori aziende produttrici di armi in Israele, come Elbit Systems, la stessa che ha fabbricato i droni “utilizzati dall’esercito per colpire deliberatamente i civili in Libano nel 2006, a Gaza nel 2008-2009 e nel 2014 e fornisce le apparecchiature di sorveglianza per il Muro dell’apartheid”. L’università israeliana, inoltre, “forma i suoi studenti di ingegneria affinché lavorino con aziende che si occupano direttamente dello sviluppo di armi complesse”. Per fare un esempio, la stessa Elbit Systems ha stanziato circa mezzo milione di dollari in borse-premio per gli studenti del Technion che si specializzino in questo tipo di ricerche – senza contare gli incentivi accademici – altro esempio – di cui hanno goduto gli studenti che hanno partecipato all’operazione Piombo Fuso, nel 2008-2009.

Gli studiosi dichiarano che “fino a che non cesseranno le sistematiche violazioni contro il popolo palestinese (…)” non collaboreranno in alcun modo: “Non accetteremo inviti a visitare istituzioni accademiche israeliane; non agiremo come arbitri in nessuno dei loro processi; non parteciperemo a conferenze finanziate, organizzate o sponsorizzate da loro, o comunque non collaboreremo con loro”. E chiudono: “Tuttavia, nel pieno rispetto delle linee guida del boicottaggio accademico (Pacbi), continueremo a lavorare e collaborare con i nostri colleghi israeliani singolarmente”. Il boicottaggio accademico è una forma di lotta pacifica che colpisce le istituzioni, non le relazioni, “anche se spesso viene presentato come una sorta di ‘campagna d’isolamento’” – dice Paola Rivetti, attualmente alla Dublin City University, in Irlanda. Infatti, il BDS conta anche sull’appoggio di studiosi israeliani, che pagano prezzi molto duri per il loro dissenso politico.

L’iniziativa va ad allinearsi a un trend internazionale in costante crescita. In testa, gli Stati Uniti. Nel 2012, l’American studies association – che conta oltre 5mila iscritti – votò per il sì al boicottaggio. Di lì in poi, alla campagna di endorsement alla lotta per i diritti dei palestinesi, proprio nel paese da sempre amico di Israele, gli Usa, hanno aderito: l’American Anthropological Association, la National Women’s Studies Association, l’African Literature Association, l’Association for Asian American Studies, l’Association for Humanist Sociology, la Critical Ethnic Studies Association, la National Association for Chicana and Chicano Studies, la Native American and Indigenous Studies Association e la Peace and Justice Studies Association. E negli ultimi mesi l’adesione al Pacbi si è fatta strada anche in Europa, dove hanno firmato appelli simili oltre 500 accademici nel Regno Unito, 450 in Belgio e 120 in Irlanda. E 200 in Sud Africa.

Tra i firmatari, nomi storici dell’attivismo italiano, come Angelo Stefanini, medico del Centro di salute internazionale dell’Università di Bologna, che specifica: “L’attivismo spesso evoca chi fa confusione nelle piazze, ma in realtà è da intendersi come qualcosa di intrinseco alla propria professione, l’obbligo etico-morale di denunciare apertamente le ingiustizie, trasformando la ricerca in pratica”. Ricerca-azione, in sostanza. Non manca la firma di Giorgio Forti, dell’Università di Milano e membro di Ebrei contro l’occupazione, né di nomi noti del mondo accademico – come Domenico Losurdo, Angelo D’Orsi, Riccardo Bellofiore o Joseph Halevi. E poi, molti giovani. Emerge così l’esistenza di una corrente critica di studiosi di cui la Campagna Stop Technion può essere, a detta di alcuni firmatari, una sorta di “piattaforma di riferimento”.

A Marzo, infatti, la Società Italiana di Studi sul Medio Oriente (SeSaMO), terrà una tavola rotonda sul boicottaggio accademico durante la sua conferenza annuale. Sarà la prima volta che un’associazione accademica, in Italia, discuterà pubblicamente delle campagne Bds/Pacbi. Ecco che il dibattito sul BDS, la risposta al silenzio della comunità internazionale di fronte alla violenza di stato israeliana, fa il suo ingresso anche nell’accademia italiana.

L’appello

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