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All’inizio di Vangelo – il nuovo spettacolo di Pippo Delbono, che ha debuttato in prima nazionale al teatro Argentina di Roma, dove è in programma fino a domenica 31 gennaio – una serie di sedie è disposta sul palco frontalmente rispetto alla sala. Entrano gli attori, eleganti nei loro vestiti da sera, si siedono. Comincia così quella sorta di rito che è lo spettacolo. Un rito laico eppure profondamente religioso, non tanto per il titolo quanto perché è tutto il teatro di Pippo Delbono ad essere animato da un furore “laicamente religioso”: c’è sempre, al fondo del percorso di ricerca che conduce ad ogni spettacolo, una ricerca profonda del sé e dell’altro, dell’oltre del sé e dell’oltre assoluto. Come se il teatro fosse – insieme con il cinema, che non a caso è sempre più intrecciato al teatro negli spettacoli di Delbono – il luogo in cui lo scavo può andare più a fondo, in cui la verità si può meglio cercare e forse trovare, perché la verità ci rende liberi.

Dunque Vangelo: la fonte, l’eterna sorgente della ricerca di Pippo Delbono è la madre, che sul letto di morte – chi ha visto a suo tempo Sangue ricorderà la scena – chiede a Pippo di fare uno spettacolo sul Vangelo per diffondere una parola d’amore. E Pippo segue quest’indicazione, ma quasi come forma di riscatto. “Quanta rabbia avevo accumulato, da bambino, nelle chiese, luoghi dove il profumo di morte prevale rispetto al messaggio d’amore”, dice, portandoci lentamente verso il tema. Perché poi Vangelo è una grande epopea dell’amore, l’unico travolgente e forse rivoluzionario messaggio vero del Vangelo, che invece viene spesso sepolto sotto la coltre della scrittura.

Delbono allora reagisce, reagisce alla tradizione che pensa al Dio maschio, preferendo a quel Dio il diavolo, un po’ maschio un po’ femmina (e qui infila la parodia di Tu sei l’unica donna per me di Alan Sorrenti); reagisce alla falsa compassione, preferendo la vera com-passione, che vuol dire scendere nel buio e trovare qualcuno con cui risalire, ieri Bobò, microcefalo sordomuto trovato nel manicomio di Aversa e da decenni divenuto mitica icona ottantenne di tutti gli spettacoli e i film di Pippo Delbono, oggi i profughi, quelli che si sono salvati perché sono passati anch’essi dal buio del viaggio per riemergere in terra straniera. Pippo mostra i profughi, ripresi con pudore e con amore, con quella carnalità che sprizza da tutte le immagini che gira con le microcamere. E, in uno dei momenti più forti dello spettacolo, porta un profugo afgano in sala a raccontare il suo viaggio della speranza e della salvezza. Beati i poveri, i perseguitati, beati gli ultimi.

Lo spettacolo avanza, intrecciando quasi ludicamente le tappe del Vangelo e i simboli della liturgia tradizionale: dalla scelta tra Cristo e Barabba accostata a un percorso con le pistole alle suore che ballano giocosamente, dalla passione nel Getsemani accompagnata dalla musica del finale del Don Giovanni mozartiano: “Parlo, ascolta: più tempo non ho”, alla condanna rituale di Cristo (non a caso Nelson, altra icona di Delbono, vero Cristo dei nostri tempi obesi, nel corpo magro ed eloquente) ad opera dei giudici rossovestiti. E mentre avanza con una drammaturgia che procede per accostamenti in parallelo, per scontri, per evocazioni attraverso rimbalzi reciproci, libera il vero verbo del Vangelo, l’amore, la vita, la libertà, cioè il contrario della colpa, del peccato, della morte che hanno spesso prevalso nel messaggio religioso. Il Vangelo letto come squarcio di luce. Si tratta di cercare di vedere davvero, di vedere oltre: una delle fonti di ispirazione dello spettacolo è stata una malattia, una delle tante che per Pippo Delbono sono come momenti di verità. Colpito agli occhi, Pippo vedeva tutto doppio, e in questo periodo di solitudine e spiazzamento anche la croce, che gli stava davanti al letto di ospedale, liberava la sua potenziale ricchezza. Così tutto gli si presentava sotto il segno del doppio, come già in Orchidee, il cui tema era l’indistinguibilità del vero dal falso. Anche i luoghi della passione e della sofferenza, come quelli dei rifugiati e degli emarginati, rilucevano di una luce carica di speranza.

Come sempre il cuore del teatro – come del cinema – di Pippo Delbono è il montaggio: gli elementi portati in scena, più che essere i tasselli di un puzzle incomponibile, sono invece pietre che scintillano scontrandosi tra loro. Queste pietre si chiamano Sant’Agostino e Pasolini, i Rolling Stones e Mozart, Enzo Avitabile e Jesus Christ Superstar, i vestiti sgargianti della scena e le povere coperture dei migranti. Uno spettacolo come Vangelo sarebbe piaciuto a Sergei Eisenstein, che nel teorizzare il montaggio delle attrazioni teatrali insisteva sulla necessità di unire i vari momenti dello spettacolo non con il filo rosso di un racconto lineare, ma con lo scontro realizzato in vista della produzione di un’idea globale, di un effetto tematico finale, di un’immagine complessiva. Allora questo è forse il solco più fertile del teatro contemporaneo.

L’amore, la purezza, e dunque l’infanzia: l’ultima scena, con cui Pippo si congeda, è quella di Gianluca, storico attore down della compagnia, in una culla, mentre Bobò sul fondo è vicino a un cavallo a dondolo: se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli.

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