dome of the rock

                                                                                                                                                                                                                                                                                          Here the English version

Avevo tipo 16 anni. E non ricordo ora se sia stato per via dei barboni, o dei mendicanti. O magari gli zingari. Però un giorno fuori dalla chiesa di San Ferdinando, a Bari, la chiesa della Bari bene, sul corso, montarono un’inferriata. Per la notte.

Perché i poveri non cercassero riparo sotto il suo portico.

Forse è per questo che le moschee oggi mi colpiscono così tanto. Perché arrivo da un Paese in cui le chiese sono musei. Letteralmente: spesso, ormai, si paga il biglietto. Quattro vecchiette pregano in mezzo a turisti in ciabatte che si scattano un selfie accanto alla mano di un santo. Arrivo da un paese che è il Paese del Vaticano: che non è sinonimo di religione, ma di potere. Di una chiesa che tranne le poche eccezioni dei preti di periferia, è proprietaria di hotel, ristoranti, scuole, ospedali: tutto esentasse. Si occupa più di affari che di anime. Una volta ho chiesto a una suora un vangelo, io che arrivo da una famiglia atea. Stavo per trasferirmi qui, e ho pensato che forse era il momento di capirci qualcosa. Mi rispose: “Puoi comprarlo su Amazon”.

Arrivo da un Paese con mille chiese: quasi tutte stanche e vuote. Radicalmente diverse dalle mille moschee che animano invece il mondo arabo musulmano e che traboccano vita. Entri, scalzo, su questi strati di tappeti, uno sopra l’altro, che sembra di camminare a mezz’aria per quanto sono morbidi e qualcuno studia, qualcuno chiacchiera. Qualcuno prega. Qualcuno cospira. Qualcuno, semplicemente, dorme: perché nessuna moschea ha un’inferriata. Nessuna. Una moschea non ti lascia affamato, non ti lascia solo. Non ti chiude fuori. Una moschea, qualsiasi moschea, è molto, molto più che religione: è uno spazio sociale. Un po’ come le nostre piazze, i nostri caffè. E quello che più mi incanta è che per quanto, spesso, siano un capolavoro di architettura, all’interno sono sempre molto semplici. Per questo è così immediato concentrarsi. Ritrovarsi. Perché sono insieme bellezza e sobrietà. Non è una bellezza ostentata, che ti distrae, che si fa ammirare: la bellezza di una moschea è una bellezza che si fa vivere.

Le moschee, qui, sono un cardine dell’identità. Anche per i laici. E però al-Aqsa, a Gerusalemme, che tra l’altro è terza in ordine di importanza dopo la Mecca e la Medina, è spesso inaccessibile ai palestinesi, per i pretesti più svariati. E non è solo Israele. L’Italia ha sette moschee. I musulmani, decine di migliaia, sono confinati a pregare dentro scantinati, capannoni, parcheggi dismessi. La Svizzera ha proibito i minareti. La voce del muezzin: la cosa più incantevole del mondo islamico. Anche per i laici. Anche per chi, come me, è cresciuto nell’idea che la religione sia più perdizione che salvezza. Ma sono anni che ogni sera, al tramonto, guardo dalla finestra chi prega, noi che controlliamo compulsivi le ultime mail, gli ultimi tweet: e qui per cinque volte al giorno, invece, ogni giorno, in tanti si fermano, per un momento, si fermano a riflettere su qualcosa di più che se stessi – e li guardo, ogni sera, con stupore: io che non so farlo.

Ma fondamentalmente questo, per noi occidentali, è un mondo di seconda classe. Un mondo che non esiste. A cui, al più, possiamo concedere rispetto – il rispetto dell’altro, della diversità. Un caffè equo e solidale. Ma non un mondo da cui sentiamo di avere da imparare.

Non un mondo sullo stesso piano del nostro.

C’è un verso di Khalil Gibran, dice: “è bene dare quando viene chiesto, ma è ancora meglio capire e dare quando niente viene chiesto – dare, cioè, prima che uno arrivi a chiedere: perché chiedere può essere difficile”. E per me è quello che più caratterizza la vita qui. La sensibilità. E anche quello che più differenzia questo mondo dal nostro. Fai qualcosa per qualcuno e da noi pensano sempre che hai un doppio fine. Che in realtà fai quella cosa per ottenerne un’altra. Siamo così egoisti ormai, così cinici, che non crediamo sia possibile essere gentili. Essere attenti agli altri. Generosi. La sensibilità è sospetta. E invece qui è così normale. Così quotidiana. Ma dirlo è vietato: ti accusano di idealizzare. Di non vedere il vero Islam.

Le mani mozzate ai ladri.

Se ti piace una cosa, qui, non so, una piccola cosa, una sciarpa, la collanina al collo di un’amica, è molto comune che ti sia regalata. Capita anche a me, ora: dovesse essere l’oggetto a cui sono più legata – ma altrimenti, come mi disse proprio qui un imam che mi regalò un piatto appeso nel suo studio, “non sei quello che possiede, sei quello che è posseduto“. Ma quando mi capita di regalare una sciarpa, ora, e di spiegare che l’ho imparato qui, l’ho imparato in Medio Oriente, non ci crede nessuno. Mi dicono: è carattere. Mi dicono: è così anche tuo padre.

No. Non ero così, un tempo. Molto di quello che ho imparato, l’ho imparato qui.

Soprattutto una cosa. Quanto siamo razzisti con i musulmani.

Così razzisti che è vietato anche dirlo.

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