Un mio articolo pubblicato su ilfattoquotidiano.it qualche giorno fa ha suscitato delle risposte stimolanti, dalle quali vorrei prendere spunto per ribadire alcuni punti che in questo confronto mi sembrano importanti.

Innanzitutto, mi sembra di registrare un accordo piuttosto ampio sul fatto che molte delle soluzioni con cui nel passato sono stati affrontati problemi sociali di grande scala oggi non sono più proponibili. E’ cambiato lo scenario complessivo. Siamo entrati in un’epoca in cui Stato e mercato, nelle forme tradizionali, non riescono a star dietro ai nuovi bisogni sociali. A nuove domande si deve reagire con nuove risposte che sempre più spesso coincidono con la capacità di mettere in movimento risorse che vengono dalla società. In questo quadro il settore non profit ha un ruolo destinato a crescere anche al di là dei settori tradizionali del welfare e della cura della persona.

E’ una tendenza chiara e robusta, che richiede di mettere a punto strumenti capaci di accompagnarne lo sviluppo. Tra questi, anche una leva finanziaria pensata per funzionare nel contesto di organizzazioni in cui sostenibilità economica e valore sociale sono due pilastri di pari importanza.

Una risposta a questa esigenza di finanza sociale va sotto il nome di impact investing. E’ il modello di origine anglosassone con cui si cerca di spingere i capitali privati ad investire nel sociale, combinando la garanzia di un buon ritorno dell’investimento con il raggiungimento misurabile di obiettivi sociali. Il suo punto consiste nell’indirizzare una parte della disponibilità di investimenti alla ricerca di opportunità verso delle buone cause. Qualcuno lo chiama “capitalismo con un cuore”. Di fatto è il tentativo di trasferire al settore sociale i meccanismi del capitale di rischio: l’investitore è mosso da un obiettivo sociale ma le sue aspettative di guadagno non sono molto diverse da quelle che lo motivano ad agire in altri settori.

Sono tre gli aspetti per cui questa risposta non mi convince. Primo: l’impact investing sembra uno strumento semplice ma in realtà si basa su un’idea – la misurazione di impatto – troppo complessa perché si riesca a tradurre in un criterio operativo. Il rischio di mismatch valutativo è quindi molto elevato. Secondo: nei (non molti) casi in cui è stato effettivamente utilizzato, l’impact investing ha preteso tassi di remunerazione del capitale più simili ai tassi di mercato – dunque alti – che alle aspettative di un investitore paziente. Il meccanismo sembra dunque decisamente sbilanciato a favore degli investitori. Terzo: senza regole ferree che vincolino la destinazione degli utili alla crescita della stessa impresa sociale e impediscano la distribuzione degli asset, la porta resta spalancata ai comportamenti speculativi. In nome dello sviluppo delle imprese sociali si rischia quindi di minacciarne la stessa esistenza.

A tutto ciò si aggiunga che, nel caso italiano, il capitale di rischio è una presenza appena simbolica. Basti pensare che nel 2014 il venture capital ha destinato ad investimenti in start up ad alta tecnologia solo 44 milioni di euro (contro i 300 milioni della Spagna e il miliardo e passa di Francia, Germania e Regno Unito). Se non riesce neppure a catalizzare investimenti nell’industria innovativa sarà dura che questo approccio possa funzionare nel settore sociale. Né tantomeno mi sembrerebbe il caso di usare risorse pubbliche, già scarse, per incentivare questa forma di investimento. Co-finanziare con denaro pubblico gli investimenti privati di rischio non mi parrebbe per niente una scelta lungimirante.

Più promettente è invece l’altra impostazione, che porta risorse finanziarie dentro l’economia sociale senza piegarne la natura alle esigenze degli investitori. Quindi adottando una forma di impresa che offre garanzie in questo senso. Che è poi la ragione per cui insisto sulle imprese sociali, con cui è bene familiarizzarsi perché sono forme di impresa che vedremo sempre più spesso all’opera.

Mi riferisco qui alle imprese sociali di fatto, in quanto indipendentemente dalla loro natura giuridica soddisfano quattro chiari requisiti: 1) sono imprese che producono beni e servizi di interesse sociale, da cui risulta un concreto beneficio in settori che riguardano salute, educazione, ambiente, e su altri temi importanti per la qualità della nostra convivenza civile; 2) sono imprese che generano occupazione anziché basarsi solo sul volontariato: quindi contribuiscono a creare posti di lavoro retribuiti e di buona qualità, perché riconoscono un valore sociale anche al rapporto con i propri dipendenti; 3) sono imprese in cui non impera la preoccupazione di assicurare remunerazione a chi investe, in quanto il ritorno che garantiscono non viene calcolato in punti percentuale sul capitale investito ma si misura con il metro della qualità sociale prodotta (un ritorno indiretto, sia detto tra parentesi, che migliora il contesto entro cui le imprese tradizionali operano); 4) infine sono imprese a tutti gli effetti, quindi per vivere devono essere finanziariamente sostenibili ed autonome senza dipendere in via esclusiva dalla generosità di un donatore.

La forza trasformatrice delle imprese sociali attraversa tutti i settori e influenza anche i modelli tradizionali di impresa. Tant’è che sempre più spesso grandi aziende, multinazionali, si ispirano e si alleano con imprese sociali per innovare i propri modelli di azione e per affrontare questioni di grande impatto sociale.

Gli esempi non mancano, anche se per ora è più facile trovarne in Francia e Gran Bretagna che nel nostro paese. Muhammad Yunus in un articolo recente sulla Harvard Business Review ha scritto delle grandi imprese francesi che stanno adottando modelli di business provenienti dal non profit per contribuire alla lotta alla povertà nel mondo ricco. Questi nuovi modelli – dall’iniziativa di Essilor che mette in vendita occhiali da lettura a meno di trenta euro destinati ai pensionati più poveri al gruppo di telecomunicazioni SFR che ha predisposto per i senzatetto un apposito servizio di telefonia cellulare – sono al tempo stesso un modo efficiente di combattere la povertà e una fonte di nuove idee commerciali per le imprese che li promuovono. Con uno straordinario effetto di knowledge transfer dal non profit al profit su cui in pochi avrebbero scommesso qualche anno fa.

Alle grandi aziende citate da Yunus il confronto con il mondo del non profit ha aperto nuove prospettive in un processo di apprendimento che nasce dalla differenza tra i rispettivi modelli. La collaborazione creativa tra profit e non profit è infatti molto più proficua dell’annullamento delle distinzioni o della convergenza verso modelli ibridi.

Per questo credo che le imprese sociali vadano sostenute in quanto tali, anche nell’interesse dello sviluppo delle imprese tradizionali. Ed è questo il motivo per cui vorrei che non si modificasse la natura dell’impresa sociale con lo scopo di renderla finanziabile secondo le regole dell’investimento di impatto.

Lasciamo che le imprese sociali continuino a distinguersi dalle imprese ordinarie per i limiti che devono rispettare nella distribuzione di utili e patrimonio, e impegniamoci piuttosto a stimolare la raccolta di vero capitale paziente. Sono convinto che anche nel nostro Paese ci sia un potenziale di filantropia attiva molto più grande ed interessante delle risorse che si possono raccogliere con l’impact investing.

E’ in questa direzione che vanno concentrati gli sforzi. Sia come risorse pubbliche, per agire come leva o seed money destinato al non profit, sia per catalizzare donazioni e investimenti privati mossi da obiettivi diversi dal profitto (già oggi, in Italia, sono più di 10 miliardi di euro ed è un valore che può crescere significativamente).

Il modo più efficace per sostenere le imprese sociali, a mio avviso, è infatti accettare che il ritorno dell’investimento si misura esclusivamente in termini di benessere sociale anziché in valori monetari. Quando finalmente lo avremo capito ci renderemo conto di come la finanza per il sociale ha bisogno di strumenti molto più semplici, alla portata di tutti, di quanto si creda.

di Vincenzo Manes, consigliere pro bono del presidente del Consiglio per il terzo settore nonché presidente di fondazione Dynamo Camp e del gruppo Intek

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