Quarantacinque emittenti e oltre quattrocento operatori sparsi in tutto il territorio nazionale, da Radio 6023 in Piemonte a Radio Zammù a Catania. Questo sono oggi le radio universitarie italiane, nate nel Duemila con le prime esperienze a Siena e Teramo, a cui si sono aggiunte quelle di Padova (RadioBue), Verona (Fuori Aula Network), Pavia e Trento nel 2004 e a seguire tutte le altre. In principio nate come ospiti di radio locali, si sono poi trasformate in realtà consolidate, grazie anche alle possibilità “low cost” fornite dalle nuove tecnologie, che consentono di andare in onda con un budget di poche migliaia di euro.

In quindici anni le emittenti degli atenei italiani sono cambiate, adeguandosi al trend che caratterizza i grandi network nazionali. Andrea Taccani, presidente dell’associazione RadUni, che riunisce gli operatori delle radio universitarie, parla proprio di un cambio di mission: “Se le radio nascono dall’esigenza delle università di comunicare e mettere in contatto le varie componenti delle comunità accademiche, con i nuovi strumenti social, che rendono la comunicazione più immediata e condivisibile, diventano luogo di inclusione sociale in cui i giovani possono sperimentare nuovi linguaggi”.

L’integrazione tra radiofonia e social network è diventata centrale, conferma Elisabetta Sacchi, ex speaker della web radio di Vercelli, oggi parte dello staff ufficiale di M2O: “Gli ascoltatori vogliono entrare in contatto con chi fa la radio e vogliono vederci anche in streaming video. Su Facebook poi ci chiedono i titoli delle canzoni e dove trovare le playlist. O semplicemente vogliono darti il buongiorno. Chiedono di essere ascoltati e, possibilmente, di ricevere una risposta alle loro domande”.

Quelle nelle emittenti universitarie sono esperienze volontarie, che possono far guadagnare crediti formativi, e che contribuiscono all’acquisizione di competenze concrete. Fare un programma è portare avanti un’esperienza quasi lavorativa: si imparano a gestire responsabilità, a creare contenuti. “Si accrescono le doti comunicative e si acquisiscono le cosiddette ‘soft skills’, come la capacità di lavorare in team o il problem solving, che tanto piacciono al mondo del lavoro” continua Taccani. In questo modo ogni anno le emittenti formano ogni anno speaker, registi, redattori, video maker e social media manager.

E alcuni riescono a trasformare la loro passione in lavoro grazie anche alle connessioni con i grandi network. Ogni anno le radio universitarie si incontrano al FRU, il Festival delle Radio Universitarie, per confrontarsi tra loro ma anche con emittenti nazionali. M2O, ad esempio, si è avvicinata a questo mondo nel 2011, e da allora manda in onda ogni settimana M2U University, un programma di news dal mondo universitario con i contenuti prodotti dalle web radio.

Ogni anno, poi, alcuni contest mettono alla prova gli studenti e offrono in palio borse di studio per accademie radiofoniche o, come è successo ad Elisabetta Sacchi e Federico Riesi, la possibilità di condurre un programma su un’emittente del network nazionale. “Abbiamo vinto il contest ‘miglior voce categoria conduzione nel 2013’ e abbiamo condotto il programma estivo della domenica ‘I Fedely del week end‘. Doveva durare una stagione ma è andato bene e così abbiamo continuato: ora facciamo parte dello staff ufficiale”. Elisabetta sottolinea l’importanza del ruolo ponte che le radio universitarie hanno condotto nel suo caso: “Ho lavorato in un network locale per 4 anni, ma senza le radio universitarie sarei ancora lì”.

Ma la radio consente di sviluppare anche altri profili professionali oltre a quello dello speaker. Giulia Giordano di Radio Rumore (Reggio Emilia), anche lei vincitrice del contest voce del 2013, oggi è social media manager di una casa editrice: “L’esperienza in radio mi ha insegnato a gestire gli strumenti con cui lavoro ora – racconta Giulia -. E ai colloqui di lavoro, quando leggono sul curriculum che hai fatto un’esperienza del genere, sarà che è qualcosa di particolare, si incuriosiscono”.

(fonte immagine: RadUni)

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