Dopo la preziosa inchiesta di Riccardo Iacona sulle “famiglie abbandonate”, andata in onda domenica 25 gennaio, che ha tentato di portare all’attenzione dell’opinione pubblica la precaria situazione delle famiglie italiane; delle ricadute sulla vita dei ragazzi minorenni e delle scarse azioni di sostegno sociale che conducono ad errate decisioni dei tribunali, due sono le riflessioni che mi sorgono spontanee e su cui vorrei invitare altre persone a riflettere.

Come da più parti è già stato denunciato, non ultimo dal bollettino Istat sulla povertà in Italia 2013, sarebbero più di un milione i minorenni “incapaci – afferma l’istituto di statistica – di avere una vita dignitosa”. Un grido d’allarme ancor più sconfortante perché lascia molti dubbi sulla zona grigia della “classifica” quella, cioè, della tante famiglie che si trovano poco al disopra del limite del reddito mensile di spesa (1.046 euro per famiglie del nord con 4 componenti) considerato “soglia di povertà assoluta” ma, soprattutto, perché – come ha evidenziato il servizio di Iacona – apre la strada a diverse interpretazioni e, conseguentemente, a diverse iniziative di intervento (talvolta incomprensibili) degli organi giudiziari minorili.

Se, infatti, va premesso che la Legge 149 del 2001 nel ribadire il contenuto della Legge 184/1983, rispetto al “diritto del minore a crescere e ad essere educato nell’ambito della propria famiglia”, ha sancito che “le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia”, dobbiamo constatare che sempre più spesso, anche se non espressamente dichiarate, sono tali disagiate condizioni economiche a motivare l’allontanamento del minore “stante la temporanea assenza di un ambiente familiare idoneo”.

Un’interpretazione, dunque, palesemente errata e, soprattutto, in contrasto con il disposto legislativo che vieterebbe, appunto, l’affidamento esterno di un minore a causa di motivi economici e/o d’indigenza dei genitori. Anzi, a leggere bene il testo, la “149” dichiara esplicitamente che “a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto”. Ed ecco, allora, la prima riflessione: sappiamo perfettamente che tali aiuti andrebbero attinti dagli ormai smagriti bilanci dei comuni; così come sappiamo bene che i servizi sociali dei Comuni dovrebbero, non solo vigilare ma, soprattutto, agevolare, aiutare, rinfrancare, stimolare, sostenere, accudire, prendersi cura – per conto della Comunità – proprio dei soggetti più deboli e sostenendo i minori attraverso gli interventi sui loro genitori.

Altro, allora, che affidamento all’esterno della famiglia per motivi economici. Compito del Tribunale dei minori, secondo me, dovrebbe essere il ripristino della legalità, imponendo ai servizi sociali di svolgere il proprio ruolo e ai Comuni di reperire le risorse adeguate a sostenere i redditi delle famiglie che più ne hanno bisogno. Anche attraverso un più serrato reclutamento di singoli e di famiglie disponibili  a sostenere – con una presenza di prossimità – i minori e le loro famiglie di appartenenza e recuperando risorse oggi affidate a strutture comunitarie.

Se è vero, come ha denunciato il servizio di “Presa Diretta”, che il costo di un minore in struttura è pari a (circa) 250 euro al giorno, quanto si risparmierebbe utilizzando famiglie affidatarie a cui la legge riconosce 250 euro al mese? Invece di assecondare il malfunzionamento delle strutture comunali e le ruggini mentali degli assessori al bilancio, i Tribunali dei minori svolgerebbero un servizio, invece che di surroga, di reprimenda e di stimolo a nuove e più avanzate forme di socialità.

La seconda riflessione, dunque, parte proprio da questa ultima constatazione – che peraltro avevo già cercato di esporre in uno dei primi “post” su questo blog – ed è riferita alla scarsità di famiglie “disponibili” all’affido e il ricorso, ancora troppo frequente, nonostante la Legge, all’affidamento alle comunità di “tipo familiare”.

Al di là delle legittime e doverose reprimende ai magistrati minorili, a cui giustamente rimproveriamo lo schiacciamento sulle relazioni dei “servizi” e sull’uso (spesso) auto assolutorio e auto giustificativo (quando non, invece, punitivo) della collocazione in struttura, quando sussistano – davvero – situazioni di “pericolo” per l’integrità psicofisica del ragazzo, non v’è dubbio che la sua “messa in sicurezza” passi necessariamente per l’allontanamento “temporaneo” dalla famiglia d’origine. è allora, quindi, che sorge il problema: in assenza di persone o famiglie disposte a prendersi cura del minore, aiutando la famiglia a recuperare stabilità, l’interesse primario del minore passa comunque per la collocazione in comunità di tipo familiare che, per quanto esose e, spesso, non rispondenti appieno ai bisogni, assicurano almeno la sicurezza educativa e il magistrato con le mani legate, non può che prenderne atto.

Si può girarla come la si vuole ma le organizzazioni – civili o religiose – coprono, come sempre in questi casi, quei bisogni a cui la società non riesce a dar risposta e, purtroppo, talvolta i malvagi fanno fortuna sulle disgrazie altrui.

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