Tre governi diversi senza passare per le elezioni. Nominati per il bene della stabilità politica del Paese, certo, e per il timore che lo spettro “dell’antipolitica” si facesse carne dentro le urne. E poi Grillo e i 5 Stelle, simboli dell’antisistema e del populismo disfattista e antieuropeo, pubblicamente osteggiati e delegittimati più volte senza mai citarli direttamente. E la spinta verso riforme di sistema che oggi, però, appaiono ben lontane dalle emergenze economiche del Paese. E ancora: la convinzione che una parte della Costituzione possa essere modificata dallo stesso Parlamento che non è stato in grado di nominargli un successore a tempo debito. Ed un discorso di congedo, davanti al Csm, in cui ha espresso, in modo tranchant, il suo vero pensiero sul tema: “Il bicameralismo paritario è stato il principale passo falso dell’Assemblea costituente”.

L’eredità dell’ultimo anno e mezzo al Quirinale di Giorgio Napolitano ruota anche intorno a questi punti controversi. Eppure, i sondaggi spingono a credere che gli italiani davvero vorrebbero che “Re Giorgio” restasse al Quirinale fino alla fine del suo secondo settennato. Invece lascerà il Colle senza che le riforme siano approvate (a meno che ci si voglia accontentare di quella del lavoro) e con l’Italia che a marzo rischia la bocciatura europea.

Negli ultimi vent’anni, Napolitano è stato sicuramente il Presidente che ha dovuto condurre le istituzioni italiane nei momenti di massima turbolenza economica e politica. A modo certamente tutto suo. Dalla chiusura largamente anticipata della legislatura iniziata nel 2006, alla crisi economico-finanziaria culminata con lo spread sopra i 500 punti nell’estate 2011 che portò alle dimissioni pilotate di Berlusconi e al successivo insediamento di Monti a Palazzo Chigi. Quindi dallo stallo istituzionale successivo alle elezioni del febbraio 2013, sbloccato faticosamente con la nascita del governo Letta, di larghe intese, fino alla successiva staffetta con Renzi del febbraio 2014. Sempre senza chiedere il consenso degli italiani attraverso le elezioni.

Un anno e mezzo ‘eccezionale’
Giorgio Napolitano ha avuto buon gioco nella difesa del ruolo di custode della stabilità in condizioni eccezionali che consistevano, dopo le ultime elezioni politiche, in un Parlamento fatto di 3 grandi minoranze incapace o quasi di esprimere una maggioranza di governo e di esprimere anche il nome del suo successore. Traghettare il Paese oltre l’eccezionalità di quel momento è stato il pungolo del suo secondo mandato. “Bisognava offrire, al Paese e al mondo – queste le sue parole – una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi: passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di fiducia internazionale verso l’Italia”. Un anno dopo la racconterà così: “E’ stato duro procedere nel compito che mi spettava del promuovere la formazione di un governo di ampia coalizione, il solo possibile nel Parlamento uscito dalle elezioni del febbraio del 2013, e nel sollecitare un programma di rilancio della crescita e dell’occupazione, e di contestuale, imprescindibile avvio di riforme economico-sociali ed istituzionali già troppo a lungo ritardate”. E ancora. “Che questo processo si sia messo in moto, e di recente decisamente accelerato –  ha scritto ancora Napolitano – senza essere bloccato da una crisi e susseguente ristrutturazione della maggioranza di governo né, più tardi, dal cambiamento politico sfociato in una nuova compagine e guida governativa, mi fa considerare positivo il bilancio dell’anno trascorso”.

Un anno e mezzo politicamente turbolento, dunque, con molte ombre. Determinate – questa la critica principale che viene mossa a Napolitano – dal protagonismo politico, sfociato in qualche forzatura rispetto ai suoi limiti costituzionali, ma anche sul ruolo svolto nella delicata questione della trattativa Stato-Mafia e nel rapporto con la magistratura. A partire dalla decisione di sollevare il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo, in merito alle intercettazioni indirette delle telefonate con l’ex ministro Mancino, poi distrutte. E al tentativo di evitare la testimonianza di fronte ai giudici di Palermo nel processo sulla Trattativa Stato-mafia– poi doverosamente resa – con una lettera in cui asseriva l’inutilità della sua deposizione. Per arrivare alle timide condanne della corruzione dilagante, sempre seguite da critiche all’atteggiamento delle toghe. Un pregiudizio che diventa evidente quando Napolitano sceglie di bocciare la nomina di Nicola Gratteri – pm in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta – a ministro della Giustizia nel governo Renzi.

La querelle sulla grazia a Berlusconi
E’ stato, questo, senza dubbio uno dei momenti più bui del secondo mandato di Napolitano, secondo – forse – solo alla sua presunta volontà di concedere la grazia a Silvio Berlusconi. L’argomento, dibattuto a lungo sulle pagine dei giornali e nelle indiscrezioni di Palazzo, ha tenuto banco per buona parte del 2013, dopo la condanna definitiva dell’ex Cavaliere per frode fiscale. Si era detto, nel 2011, che Napolitano era riuscito a convincere Berlusconi a lasciare Palazzo Chigi facendo intuire al diretto interessato che la sua obbedienza alla richiesta di passare la mano sarebbe stata successivamente gratificata. La cronaca racconta che Berlusconi non battè ciglio, dimettendosi senza che il suo governo fosse stato sfiduciato in Parlamento, cosa che avrebbe peraltro potuto pretendere, ma che lo stesso Napolitano lo convinse a non tentare, sempre in nome della stabilità e dell’immagine internazionale del Paese.

Di seguito fu l’era Monti, ma la questione “grazia al Cavaliere” è rimasta sospesa per molto tempo come la nebbia, contribuendo ad inquinare l’immagine di terzietà legata alla figura del Capo dello Stato. Sul rapporto tra Berlusconi e Napolitano, la nebbia in seguito è diventata persino più densa quando lo stesso Napolitano ha sostenuto con grande trasporto il Patto del Nazareno, nel nome della “più ampia condivisione possibile” del piano delle riforme, ma non tutti hanno compreso il suo trasporto nel considerare Berlusconi davvero interlocutore credibile nel cambiamento del Paese. Sul fronte della grazia, va comunque registrato che Napolitano ha saputo togliersi dall’impaccio con agilità. Quando, infatti, la questione è diventata troppo pressante, dal Quirinale è trapelato che fosse necessaria una richiesta formale da parte di Berlusconi, che però non ha mai inteso presentarla. Di conseguenza, a novembre 2013 il Colle fece sapere che non c’erano le condizioni per concederla. Resta il dubbio di cosa avrebbe fatto Napolitano se Berlusconi si fosse comportato in modo diverso.

L’eredità del governo Renzi
Ufficiosamente tra i due non è mai corsa simpatia. Eppure, Napolitano ha sempre avuto parole di convinto elogio per Renzi, se non altro perché a lui “non c’erano alternative”. E perché il leader del Pd sta “compiendo un ampio e coraggioso sforzo” per “correggere mali antichi” che “hanno frenato lo sviluppo del Paese”. Napolitano, insomma, è diventato nel tempo più renziano dei renziani, al punto di celebrare pubblicamente il premier proprio in quanto “rottamatore”. Un fallimento di Renzi, d’altra parte, si sarebbe ripercosso anche sul bilancio complessivo dei suoi otto anni e mezzo al Quirinale, quindi meglio sostenere il giovane premier anche oltre il lecito. Arrivando – come si diceva prima, a “benedire” quel Patto del Nazareno che potrebbe allargarsi anche alla nomina del suo successore. Con il rischio, però, che un’intesa su un nome condiviso tra Renzi, Berlusconi e magari Alfano possa trasformarsi nel detonatore di un Pd sempre più in fermento. Uno scenario, questo, piuttosto caotico. In cui le elezioni anticipate – a questo punto nell’election day di maggio – tornerebbero a prendere piede. Ma questo non sarà più un problema di Napolitano, che non a caso lascerà prima di essere obbligato a sciogliere anticipatamente le Camere, cosa che è riuscito a non fare per tutto l’arco della sua permanenza al Colle.

Il caso “Quartapelle”
Meglio, dunque, andarsene prima che la situazione possa precipitare al punto da mettere in discussione quanto sapientemente tessuto fino ad oggi. Ma c’è anche un altro motivo per cui, alla fine, Napolitano lascerà probabilmente subito dopo la fine del semestre europeo; negli ultimi tempi si era accorto che Renzi non rispondeva più ai suoi “consigli”. E c’è stato un momento che ha reso questa “distanza” con il premier davvero evidente e, di conseguenza, incolmabile. E’ stato quando, il 29 ottobre scorso, Renzi è salito al Colle con in tasca il nome del “suo” nuovo ministro degli Esteri, dopo la nomina della Mogherini a Mrs Pesc. Ebbene, Napolitano si sarebbe aspettato un nome di indubbia caratura internazionale. Oppure di un giovane, certo, per tenere fede alla linea giovanilista del premier, ma non di un outsider completo. Casomai, insomma, sarebbe andato bene Lapo Pistelli, già viceministro alla Farnesina, che avrebbe anche dato un senso di continuità. Invece, Renzi si è presentato con il nome di Lia Quartapelle, volitiva deputata renzianissima, 30 anni, un curriculum accademico di tutto rispetto, ma zero esperienza politica. Lì, in quel momento, Napolitano ha capito che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe potuto dire di no a Renzi. Ha colto la palla al balzo, ottenendo in cambio la nomina a ministro degli Esteri di Paolo Gentiloni, poi ha deciso che il tempo di farsi da parte era venuto.

Certo, ripensando a tutti gli avvenimenti degli ultimi 8 anni (Napolitano è Capo dello Stato dal 2006), non si dovrebbe fare fatica a comprendere anche la stanchezza – non solo fisica – di un uomo di 90 anni nel tener testa alle intemperanze di un giovane e scalpitante premier. E se i fatti politici degli ultimi tempi portano a prevedere probabili elezioni anticipate nel 2015, si comprende ancora meglio come Napolitano non abbia nessuna intenzione di guidare l’Italia attraverso una nuova fase di grande incertezza, soprattutto economica. Sarà il suo successore a prendersi sulle spalle l’onere (ma non l’onore) di questo nuovo passaggio di grande fibrillazione che attende il Paese.

Il testamento politico e le mani sulla successione 
Gli scatoloni sono già pronti da tempo, così come l’ufficio a Palazzo Giustiniani che fu di Oscar Luigi Scalfaro e che Napolitano ha assiduamente frequentato, in queste ultime settimane, per mettere a posto i libri e rimodernare l’ambiente, un po’ troppo claustrale, che aveva lasciato il suo predecessore. Gettate alle ortiche alcune preziose stampe del ‘600, sostituite con le sue amate gouaches napoletane di fine ‘700, Napolitano traslocherà nel suo nuovo ufficio non appena verrà nominato il suo successore, cosa che potrebbe non avvenire in tempi brevi. Su una cosa, però, tutti i più attenti osservatori del Colle, in questi ultimi otto anni e mezzo, sono concordi: Napolitano eserciterà una forte influenza sulla scelta. Intanto, nel suo discorso alle alte cariche dello Stato del 16 dicembre scorso, ne ha già dato un assaggio, tracciando quello che a molti è sembrato il suo testamento politico e ad altri l’indicazione della strada da percorrere per il suo successore. Strada dalla quale sarà bene che non si discosti. Le parole d’ordine sono state riforme e stabilità: senza l’una non c’è l’altra, e viceversa. Quindi il suggerimento, sempre destinato a chi verrà dopo di lui, ad esercitare la “pressione morale” perché il Paese cambi, correggendo “taluni mali antichi che negli ultimi anni hanno frenato lo sviluppo”. Come dire: prudenza nel interpretare il ruolo in modo diverso da come è stato fatto negli ultimi anni. E, dunque, meglio un successore più “sbiadito” nel calibro dell’autorevolezza, piuttosto che uno pericolosamente troppo “autonomo”, un’idea non distante da quella di Renzi. Più che un testamento, dunque, quel che lascerà Napolitano sarà una zavorra sul futuro del Quirinale. E non solo.

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