Il numero è così colossale che richiede una spiegazione: a giugno i derivati sul debito pubblico della Repubblica italiana erano negativi per 34,4 miliardi di euro. Lo rivela alla Camera il sottosegretario alle Politiche sociali Massimo Cassano, rispondendo a un’interpellanza di deputati Cinque Stelle, primo firmatario Daniele Pesco. La cifra non era segreta, ma difficile da trovare: nei conti finanziari della Banca d’Italia, si legge che i derivati sul debito pubblico determinano una “passività” per 34,4 miliardi. E continua ad aumentare: l’anno prima era 29,2 miliardi.

I derivati sul debito pubblico (o meglio, su 161 miliardi dei 1.600 in circolazione) sono stati fatti soprattutto per proteggere l’Italia da un aumento dei tassi di interesse, come quello che si è visto all’improvviso nel 2011 con la crisi dello spread. Visto che i tassi invece sono scesi, la Bce ha ridotto il costo del denaro e i nostri creditori si accontentano di rendimenti bassi, la “scommessa” del Tesoro al momento determina una perdita: “Tale valore è sensibilmente negativo per la Repubblica italiana, in quanto influenzato dal livello assoluto straordinariamente basso dei tassi di interesse rispetto alle condizioni del mercato all’epoca della stipula”, dice il sottosegretario Cassano.

I contratti con le banche che stipulano il derivato di solito (nel 69 per cento dei contratti in essere) prevedono che se i tassi superano una certa soglia, la differenza ce la mette la banca al posto del Tesoro. Ma se invece scendono, è il ministero a dover pagare. Almeno in teoria. Perché le passività sono, come si dice in gergo, mark to market. Se il Tesoro decidesse di chiudere adesso tutti i contratti in essere, dovrebbe pagare alle banche 34,4 miliardi. È una fotografia, non un film. Se, per esempio, nei prossimi anni i tassi dovessero impennarsi (ipotesi remota ma non impossibile), allora scatterebbe l’assicurazione dei derivati e le perdite le subirebbe la banca. Nel 2012, durante il governo Monti, il Tesoro allora guidato da Vittorio Grilli decise di chiudere un contratto con Morgan Stanley (la banca guidata in Italia proprio da un ex ministro dell’Economia, Domenico Siniscalco) e pagò sull’unghia 2,4 miliardi. Nel 2013 i derivati hanno determinato un esborso netto, cioè soldi veri usciti dalle casse pubbliche, di 3,2 miliardi.

Il governo aggiunge un dettaglio storico interessante: smentisce che l’Italia sia entrata nell’euro soltanto grazie a un aiutino dato dai derivati per tenere il deficit sotto il 3 per cento del Pil. Infatti, con le nuove regole Eurostat “Sec2010” che scorporano i contratti swap dal disavanzo, “il deficit del 1997, anno sul quale è stata valutata l’ammissione dell’Italia all’Unione monetaria, è rimasto entro la soglia del 3 per cento, così come è avvenuto anche nel 1998. Non sono, pertanto, fondate le ricostruzioni che in alcuni periodi si ripresentano sul ruolo svolto in proposito dai derivati”. Ma implicitamente è anche un’ammissione che, almeno un po’, il deficit fu migliorato dai derivati.

L’obiettivo della polemica dei Cinque Stelle, però, era il comma 133 dell’articolo 2 della legge di Stabilità che autorizza il Tesoro a fare accordi bilaterali con una garanzia sui derivati. Il ministero vuole tornare a finanziarsi anche in dollari (pratica ridotta in questi anni di crisi) ma serve un contratto per proteggersi dal tasso di cambio e ci sarà la possibilità di mettere dei soldi veri a garanzia delle oscillazioni. I timori per ora sono prematuri, serviranno decreti del Tesoro per capire i dettagli: al momento la linea del ministero dell’Economia è molto dura sui derivati, sono vietati a tutte le amministrazioni locali ed è in corso un’operazione per ricomprare il debito delle Regioni su cui ci sono contratti strani. Il Lazio, che ha sostituito il debito verso le banche su cui c’erano derivati con debito verso il Tesoro, risparmia ora 90 milioni all’anno.

da Il Fatto Quotidiano del 6 dicembre 2014

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