Farà 77 anni a luglio. Giovanni Berneschi è crollato prima. In due tempi, però. Defenestrato dal consiglio di amministrazione di Banca Carige, nell’autunno scorso, travolto dall’inchiesta degli ispettori della Banca d’Italia sulla montagna di crediti inesigibili concessi dalla sua banca ad un selezionato bouquet di amici. Accusa rilanciata dalla Procura della Repubblica di Savona che lo ha indagato per i finanziamenti al faccendiere Antonio Nucera, tuttora latitante. Giovedì, poi, la caduta definitiva, schiacciato da accuse più gravi di quelle che lo avevano costretto alle dimissioni. Fine dell’era Berneschi, fine del banchiere più potente della Liguria, che a forza di acquisizioni spericolate aveva portato Banca Carige al sesto posto per capitalizzazione fra gli istituti di credito italiani: 700 sportelli in tutta Italia, filiali persino in Sicilia, due società di assicurazioni e qualche banca a fare da satellite al pianeta centrale. Un ospite troppo ingombrante, la Carige, per le fragili spalle dell’economia ligure. Non poteva durare. “Non sono un derelitto – si era difeso Berneschi nella prima intervista post dimissioni – e non voglio passare per tale. Ho preso la Cassa di Risparmio con 600 dipendenti e ora siamo 6.500. Qualcosa avrò fatto, no?”. La cultura del lavoro, già. Quasi una religione laica. Lui stesso rivelò un episodio che ne illustra la tempra: “Dovevo operarmi per una pleurite, ma non avevo tempo per farlo. Il medico venne in ufficio e mi avvertì che rischiavo grosso. Gli dissi mi operi qui, e venni operato in Banca”.

Ruvido di carattere, brusco nei rapporti umani, finissimo nell’annusare le situazioni e gli uomini. Lesto a prendere decisioni, anche rischiose. Ambizioso e convinto di essere un genio della finanza. Per andar d’accordo con lui, meglio conoscerne i codici. Il passepartout magico? Parlare il dialetto genovese. Lingua, correggeva, tranchant. Guardandolo con quegli occhi scuri e severi, pesava l’interlocutore di turno. E se l’impressione era favorevole, si lasciava andare e diventava loquace, addirittura cordiale. Sciorinava aneddoti, rivelava retroscena, confidava storielle. Con quella cadenza che a Genova si ascolta ormai sempre più di rado e sopravvive sulle banchine del porto dove Fabrizio De Andrè giocava a briscola e a tresette con i “camalli”, gli scaricatori. Eppure genovese purosangue Berneschi non è. È nato a Gavi, nella terra di mezzo fra Liguria e Piemonte che inclina verso il mare di Genova e disconosce le montagne della capitale sabauda. Dotato di quello spirito caustico, della battuta alla Gilberto Govi che strappano la risata. Un attore, a modo suo. Fedele al personaggio, però.

Non è mai stato un mistero il feeling che ha unito Berneschi e il governatore ligure Claudio Burlando. Uniti, ben s’intende, nel desiderio di sostenere gli imprenditori liguri nelle loro avventure. Come quella degli Erzelli, collina alle spalle dell’aeroporto di Sestri Ponente, che ospiterà il Villaggio Leonardo, una sorta di Silicon Valley alla genovese, dove sono già sbarcate Eriksson e Siemens e si attendono altri colossi dell’elettronica. Berneschi ha sostenuto il progetto – voluto da Burlando – finanziandolo generosamente. E lo stesso ha fatto con Enrico Preziosi, patron del Genoa, al quale ha concesso un prestito di 100 milioni di euro, da spendere nella sua azienda, la Giochi Preziosi. “Sono genoano e se posso aiuto il Genoa”, fu la sua spiegazione. Le Coop Rosse, la Coop, Coopsette e le famiglie Rasero, Scerni, Preziosi, Orsero, Isnardi, Bonsignore, Messina, Rosina, Cozzi Parodi e Risso. Lungo e variegato l’elenco dei beneficiari delle erogazioni di Carige sulle quali gli ispettori di Bankitalia avevano acceso i riflettori. Non che fosse scoperto a destra, Berneschi. Data da anni la sua amicizia con Claudio Scajola, difatti aveva accolto volentieri il fratello dell’ex ministro, Alessandro, sulla poltrona di vicepresidente. Amicizie bipartisan, secondo il rito che va di moda oggi.

Ora Berneschi, Cavaliere del Lavoro e dottore honoris Causa in Economia – titolo concesso dal’Università di Genova, è diplomato ragioniere – inchiodato ai domiciliari avrà tutto il tempo per meditare sui propri errori. E rivedere in playback il lunghissimo film della sua carriera: 57 anni. Iniziò nel 1957, semplice impiegato amministrativo all’allora Cassa di Risparmio di Genova ed Imperia. Una scalata senza soste, fino alla vetta. Caposervizio, dirigente, direttore generale e infine presidente e amministratore delegato. Lasciata la massima carica, lo avevano visto percorrere i corridoi del palazzone a filo di piazza De Ferrari, l’ombelico della città, e salutare a uno ad uno i dipendenti della sede centrale. Tremila persone rassicurate che il posto di lavoro non era in pericolo, che la banca avrebbe continuato a macinare utili. E una sorta di testamento spirituale dettato con le lacrime agli occhi, lui che non aveva mai ceduto ai sentimentalismi. “Mi sono guardato allo specchio e ho deciso che me ne vado anche se resterei qua ancora….Forse mi fanno pagare quella mia battaglia con Banca d’Italia per avere indietro le quote …”.

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