Mentre nel mondo del non profit inizia la competizione per la raccolta annuale del 5 per mille delle dichiarazioni dei redditi (su cui continua a pesare il testo massimo alle erogazioni imposto ogni anno dalle Leggi finanziarie), l’Agenzia delle Entrate rende pubblici i più recenti dati relativi alla destinazione delle donazioni, riferiti all’anno 2012. Anche questa volta nella parte alta della classifica delle preferenze, insieme ai big dell’umanitarismo e della ricerca medico-scientifica come Emergency, Medici senza frontiere, Airc e Unicef, spiccano le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli) e il Movimento cristiano dei lavoratori (Mcl, le “Acli di destra”). Due associazioni che godono di un discutibile vantaggio sulle concorrenti: quello di gestire direttamente una rete di Caf (Centri di assistenza fiscale) diffusi su tutto il territorio nazionale, potendo così “indirizzare” a proprio favore le donazioni dei contribuenti per i quali compilano la dichiarazione dei redditi. Le Acli sono al sesto posto nella lista degli enti più gettonati dagli italiani per la destinazione del 5 per mille, con oltre 200mila donazioni per quasi 4 milioni di euro, Mcl in dodicesima posizione con più di 100mila firme – un terzo dei propri iscritti – per un ammontare di oltre 2 milioni. Per fare un paragone: l’Arci, che ha circa 1 milione di iscritti come le Acli ma non può contare sui Caf, la troviamo in 369esima posizione con 2.600 donazioni per una cifra di poco più di 60mila euro.

Oltre ai patronati cattolici, altre associazioni godono di un analogo vantaggio – seppur indiretto – attraverso i Caf dei sindacati di cui sono diretta emanazione: la Cgil per Auser (settima in classifica con quasi 250mila donazioni per un valore di oltre 3,5 milioni di euro) e Federconsumatori (trentesima con 50mila donazioni per 770mila euro), la Cisl per l’ong Iscos (in 48esima posizione con 25mila donazioni per 425mila euro) e Adiconsum (al 53esimo posto, sempre con 25mila donazioni, per 386mila euro), per citare quelle più gettonate. Per il sociologo Giovanni Moro, autore del provocatorio saggio Contro il non profit, edito da Laterza, “si tratta di due modalità di concorrenza sleale che aiutano alcune associazioni a emergere nello spietato mercato della raccolta fondi, dove normalmente primeggiano le organizzazioni più note e con le migliori strategie di marketing e comunicazione”.

Per il professor Moro, presidente del think tank Fondaca, “queste distorsioni sono inevitabili in un universo intrinsecamente eterogeneo come quello del non-profit o terzo settore, che nel nostro Paese è ormai arrivato a contare oltre 300mila organizzazioni, diversissime tra loro in termini di effettiva ‘utilità sociale’, nel quale molti attori sfruttano l’alone di benemerenza di cui questo variegato mondo gode per merito della sua parte più nobile”. Il problema vero, secondo Moro, non sono tanto le modalità di fundraising di certe organizzazioni, spesso comunque meritevoli per la loro funzione sociale, quanto la sempre più massiccia presenza nel “magma” indistinto del terzo settore di realtà che hanno ben poco a che fare con la solidarietà. “Sempre più spesso troviamo nel non-profit normalissime attività imprenditoriali private che indossano questa veste solo per ragioni di convenienza fiscale: bar, pub, sale giochi, ristoranti, agriturismi, discoteche, night club, agenzie di viaggio, centri fitness, circoli sportivi esclusivi, fino alle università o alle case di cura private per ricchi. Se c’è chi si approfitta della situazione la colpa è anche di chi ha dato vita a questo mostro logico e burocratico, a questa non-cosa in cui può rientrare di tutto e di più, purché sia soddisfatta la formalità burocratica, senza badare alla sostanza, all’effettiva utilità sociale dell’attività svolta. sarebbe ora di operare delle sane distinzioni”.

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