Il film di Walter Veltroni “Quando c’era Berlinguer” sarà certamente bello e toccante come hanno detto unanimente gli spettatori molto selezionati dell’Auditorium e la critica in modo trasversale.  
E l’auspicio naturalmente è che sia visto da un vasto pubblico e soprattutto da quel 18% che non lo ricorda o non lo conosce, tra cui moltissimi giovani.
 
Una grande testata nazionale come La Stampa ha definito la serata della proiezione romana come “il più  grande evento-politico-mondano nella capitale da molti anni a questa parte”. Per essere sintetici si fa prima a segnalare che gli assenti, per quanto riguarda il PD, sono stati solo Matteo Renzi e Massimo D’Alema, mentre il parterre ha incluso tra una folla di vip metà governo in carica, un numero rilevante di ex ministri, l’ex presidente del consiglio nonché il grande zio Gianni che Veltroni avrebbe voluto nel suo esecutivo, Fedele Confalonieri che a margine ha voluto ricordare il suo unico incontro con Berlinguer a Botteghe Oscure e ovviamente Giorgio Napolitano con i grandi vecchi togliattiani e miglioristi da Emanuele Maccaluso ad Alfredo Reichlin.
 
E poi naturalmente sindacalisti, imprenditori, Confindustria ai massimi livelli, giornalisti che vedono sempre il bicchiere mezzo pieno, intellighentia quasi sempre organica, molti rappresentanti dello spettacolo tra cui in pole position i premi Oscar Tornatore e Sorrentino.
 
Insomma nell’era Renzi e a trent’anni dalla scomparsa del protagonista più autorevole, coerente e coraggioso della storia del maggior partito comunista dell’occidente, troppo “moralista” per non essere isolato in vita e rimosso presto sotto l’imperversare del migliorismo filo-craxiano, i politici in modo bipartisan ed i vip più o meno al seguito sono tutti pazzi per Enrico.
 
Come aveva registrato Giorgio Bocca che è tornato spesso sul tema dell’ostracismo politico esterno ed interno al partito di cui è stato oggetto Enrico Berlinguer, per aver denunciato ben prima di Tangentopoli la deriva di affarismo e corruzione in cui si andava impantanando la partitocrazia, il vizio nel PD di prendere le distanze dal rigore berlingueriano è stata una costante di lunghissimo periodo, sempre in voga.
 
Nel 2003, per esempio il buon Piero Fassino, approdato tra i primi al nuovismo renziano, nel suo libro Per Passione aveva trattato Berlinguer come un’eredità scomoda e sorpassata da rimuovere mentre aveva incluso senza alcun problema Bettino Craxi nel Pantheon di famiglia del partito. Giorgio Bocca aveva commentato sinteticamente “.. scrivete pure i vostri libri, scoprite il riformismo ma il paragone tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi no…”
 
Possibile che nel mondo nuovo renziano, finora poco incline a dare segnali incoraggianti sul fronte della “questione morale”, come ha confermato, tra l’altro, la scelta di vice ministri e sottosegretari del PD indagati, il plauso per Enrico Berlinguer sia autentico e vada oltre quello che è stato definito “un trionfo di mondanità bipartisan”? E’ pensabile che il garantismo brandito per assolvere la casta di appartenenza ed il cosiddetto “primato della politica”, riconquistabile solo con il merito e la ritrovata fiducia dei cittadini, finisca di essere un penoso paravento per gli impresentabili sempre in prima fila?
 
Se il PD di Renzi recuperasse anche solo un decimo dell’autorevolezza morale della coerenza e del rigore che fu di Enrico Berlinguer, oltre che dedicargli tardive serate riparatorie molto glamour, forse le risate e i sorrisini più o meno canzonatori che ci riservano i nostri partner europei, sarebbero il ricordo di un passato inglorioso. Perché la credibilità e la fiducia nei confronti di un paese si fondano anche sulla rispondenza tra parole e fatti e sull’autorevolezza dei suoi rappresentanti istituzionali.
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