Il protocollo Farfalla? Non esisteva. Parola di Rosy Bindi, arrivata a Palermo per presiedere i lavori della Commissione Parlamentare Antimafia, e subito incalzata su uno degli oggetti più oscuri che avrebbe regolato i rapporti tra i servizi segreti e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Un vero e proprio accordo segreto per regolare, all’insaputa dell’autorità giudiziaria, il flusso delle informazioni provenienti dai boss mafiosi reclusi in regime di 41 bis: in pratica uno dei frutti della trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, ancora oggi oggetto d’indagine della procura di Palermo. “Per quello che ci riguarda abbiamo fatto un pezzo di strada, questo protocollo non esisteva, magari esistevano dei comportamenti che giustamente ad un certo punto si è sentito la necessità di regolare” è stata la risposta fornita dalla presidente della Commissione Antimafia.
Che tipo di comportamenti? E messi in pratica da chi?. “Non siamo ancora in questa fase: siamo in grado di dire che non esisteva un protocollo scritto” ha replicato nettamente Bindi. Risposta che stona completamente con quanto dichiarato da Claudio Fava, vice della Bindi a Palazzo San Macuto. “Ho rivolto una specifica domanda al ministro della Giustizia e al ministro degli Interni – dichiara nel gennaio scorso l’esponente di Sel in un’intervista al direttore di AntimafiaDuemila Giorgio Bongiovanni – Tale domanda riguarda il contenuto di quel documento riservato, noto come Protocollo Farfalla, il quale avrebbe legato il dipartimento di polizia penitenziaria al Sisde, tanto che avrebbe previsto la possibilità da parte degli agenti del Sisde di incontrarsi con i detenuti sottoposti a regime di 41 bis senza lasciare alcuna traccia della propria visita. Ecco, sono fatti come questo, poco chiari, che lasciano una percezione opaca di questo Stato, che vanno assolutamente portati alla luce. Ed è altrettanto intollerabile che tutto ciò sfugga al controllo giudiziario. Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa. Questo diventa un passaggio della trattativa da ricostruire e da svelare, sul piano penale e politico”.
Per Fava quindi non solo il protocollo scritto esisterebbe, ma disciplinerebbe anche la possibilità per gli 007 di visitare i boss mafiosi in carcere senza lasciare alcuna traccia di quei colloqui. A parlare per la prima volta pubblicamente del Protocollo Farfalla era stato l’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita, oggi procuratore aggiunto a Messina, che deponendo come teste al processo contro Mario Mori il 23 dicembre del 2011, raccontò di essere a conoscenza di un protocollo con quel nome, ma di non essere mai riuscito a prenderne visione perché coperto dal segreto di Stato. Ed è proprio il segreto di Stato ad essere stato invocato nel processo che a Roma vede imputati Salvatore Leopardi, in passato funzionario del Dap e oggi sostituto procuratore a Palermo, e Giacinto Siciliano, già direttore del carcere di Sulmona: sono accusati di aver passato ai servizi informazioni sul pentito di camorra Antonio Cutolo. Siciliano è oggi direttore del carcere di Opera, dove il boss Totò Riina è stato intercettato dalla Dia di Palermo mentre emetteva la sua condanna a morte per il pm Nino Di Matteo, colloquiando con il boss pugliese Alberto Lorusso. Bindi però sul capitolo protocollo Farfalla è stata netta: non esisteva alcun protocollo scritto.
La Commissione Antimafia ha deciso di effettuare alcune audizioni a Palermo dopo le dichiarazioni del prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell’agenzia per i beni confiscati, che aveva denunciato alcune anomalie nella gestione delle aziende che un tempo furono dei boss. “Ci siamo sentiti in dovere di conoscere la motivazione delle sue affermazioni” ha detto Bindi, mentre davanti la prefettura palermitana – che ospita i lavori della commissione antimafia – alcuni lavoratori di aziende confiscate ai boss manifestavano il loro dissenso per l’errata amministrazione che starebbe portando le società da cui dipendono sull’orlo della chiusura.
La Commissione Antimafia ha anche incontrato i pm della procura di Palermo che indagano sulla trattativa. “Assistiamo a degli attacchi nei confronti della nostra attività e, soprattutto, dell’impianto accusatorio del processo per la trattativa che riteniamo immotivati”, ha dichiarato il sostituto procuratore Nino Di Matteo, che insieme a Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi rappresenta la pubblica accusa al processo sulla Patto Stato – mafia in corso davanti la corte d’assise di Palermo. Recentemente proprio la Bindi ha lanciato l’idea di utilizzare la Commissione Antimafia per promuovere alcuni dibattiti il 22 marzo, in occasione della giornata dedicata alle vittime della mafia da Libera. Oltre al regista Pif e al giornalista Lirio Abbate è previsto anche un dibattito con il giurista Giovanni Fiandaca, autore insieme allo storico Salvatore Lupo di un saggio in cui la Trattativa è considerata legittima, perché “legittimata dalla presenza di una situazione necessitante”.
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