Conosco chi istituì il Giorno del ricordo, e il primo firmatario, tale Roberto Menia della cosiddetta destra triestina e più tardi “responsabile” nell’avventura di Futuro e libertà per l’Italia con Fini. L’iniziativa fu partorita, dieci anni fa, da coloro che a Trieste ma non solo hanno sempre cercato il consenso soffiando sul fuoco della rivendicazione impossibile, dell’intolleranza nei confronti della minoranza slovena (peraltro autoctona a Trieste e in Friuli nella sua gran parte da almeno 800 anni), della cancellazione delle responsabilità italiane nei territori poi diventati Slovenia e Croazia.

Non ho mai letto sui libri di testo, a scuola, dei lager fascisti nell’attuale Croazia. Non sapevo che l’Italia fascista contasse più campi di concentramento della stessa Germania nazista, ignoravo che nel campo di Rab, in Croazia (dove sono morti migliaia di Sloveni, in gran parte deportati dai rastrellamenti di Ljubljana) la mortalità quotidiana superasse quella di Dachau (dove trovò la morte il fratello di mio nonno). Oggi lo so, ma non ho mai assistito alla celebrazione di quel ricordo, di quelle persone, all’ammissione di quelle colpe. Come ricordare in modo maturo e sereno le vittime delle foibe? Come non dire che quel naturale fenomeno carsico – una grotta verticale – venne utilizzato dagli stessi fascisti, che per primi lo utilizzarono nei territori di Istria e Dalmazia per uccidere e occultare corpi, dedicando alla foiba addirittura una canzone dove questa compare come musa ispiratrice? Come ritrovare un equilibrio nella memoria che rispetti i corpi di Basovizza e tutti gli altri, se tuttora vengono USATI per dei distinguo che, a oltre settant’anni da quei giorni, dovrebbero essere messi da parte per restituire a questo Paese e a quelle terre la verità storica che meritano.

L’unico studio portato avanti da una commissione di professori universitari italiani, sloveni e croati, che ovviamente restituì colpe a entrambe le parti, venne chiuso in un cassetto anche dall’Italia, perché dava fastidio a destra e a sinistra. Gli esuli, e quanti rimasero per continuare ad abitare la loro casa, furono vittime innanzitutto dell’odio che gli italiani avevano seminato in quelle terre. Il carteggio del responsabile di Mussolini per quelle terre con lo stesso Duce parla di “esigenza di pulizia etnica”. E così fecero: persone rastrellate mentre erano al lavoro nei campi, donne e bambini presi e divisi per sempre. Gente uccisa sul posto. I campi di concentramento dislocati anche sul territorio italiano li conoscono in pochi. Pochissimi sanno cosa accadde al loro interno.

Quando, anni fa, visitai il campo di concentramento dell’isola di Rab (Arbe), tra le lapidi non c’era anima viva. Eppure l’Isola era piena di turisti italiani, come ogni anno. All’ufficio informazioni turistiche mi dissero che mai nessuno domandava di quel cimitero della memoria, dove le persone assumevano le sembianze dei più noti ospiti di Auschwitz e morivano di fame, malattie, percosse. Poi, mentre stavo per lasciare quel luogo, un signore arrivò. Capii che era italiano. Scambiammo due parole, scoprendo che a portarci in quel posto era stato lo stesso libro, quel Italiani brava gente? di Del Boca (il più grande studioso del colonialismo italiano). Solo grazie a quella lettura, incontrata da adulti, non certo da ragazzi perché prevista da un programma ministeriale. Solitari ricercatori di una verità storica negata alle vittime come ai colpevoli.

Fu mio padre a consigliarmi la lettura di quel libro, che tutt’ora consiglio a quanti sentono l’esigenza di sapere. Mio padre me lo fece leggere perché sapessi, per poter capire meglio, per distribuire colpe, se mai fosse necessario per la mia generazione, in modo più rispettoso della verità che tanti morti aveva causato. Mio padre, che è nato a Montona d’Istria (oggi Croazia) nel 1942, che a meno di due anni lasciò la casa materna con tutta la famiglia. Mio padre, che sposò una ragazza della minoranza slovena di Trieste, che non cercò mai la verità nella ricomposizione strumentale di mezze verità. Ai morti e alle vittime di una guerra e delle sue conseguenze, prima di tutto, si deve l’amore per la verità. Coltivato poco e male in questo Paese, sempre parziale. Mai nella ricostruzione ufficiale della storia di quelle terre.

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