Da mesi si sente parlare di riforma delle misure cautelari e ad ogni notizia di un c.d. errore giudiziario (o presunto tale) si invoca un intervento risolutivo.

La questione esiste, ma dobbiamo ragionare e non inseguire reazioni emotive. Prima di tutto, di cosa stiamo parlando? La misura cautelare personale è un provvedimento che il Giudice per le Indagini Preliminari emette su richiesta del Pubblico Ministero (se la condivide, i rigetti non sono così rari!) per imporre dei vincoli e degli obblighi all’indagato durante la fase delle indagini o del processo e in attesa di giungere a una decisione definitiva (carcere, arresti domiciliari, obbligo di dimora, obbligo di allontanarsi dalla casa famigliare, ecc.).

La limitazione alla libertà del presunto non colpevole (lo resta fino a sentenza inappellabile) è un’eccezione che il sistema ammette solo sulla base di due presupposti: devono esserci gravi indizi della sua colpevolezza (qualcosa di meno della prova al di là di ogni ragionevole dubbio, ma molto più di un sospetto o di qualche indizio) e devono sussistere anche esigenze cautelari. Ci sono tre tipi di esigenze: il rischio di inquinamento probatorio, il rischio concreto di fuga dell’indagato e il rischio che questi commetta altri delitti gravi o della stessa specie. Evidentemente, poi, le misure cautelari più afflittive come la custodia in carcere sono possibili solo per i reati più gravi.

Come potete intuire da questa sintesi ci sono già paletti importanti. Quali riforme si invocano allora? Il nodo terribile è quello dei possibili errori, ovvero il caso di una persona detenuta in fase cautelare e poi assolta all’esito del processo. Si tratta di una possibilità aberrante, ma come pensiamo di eliminarla? Pensate che la richiesta del Pm è stata accolta da un Gip e poi spesso confermata da tre diversi giudici del c.d. Tribunale del Riesame e infine talvolta anche confermata da altri giudici della Cassazione. Questo meccanismo dovrebbe di per sé ridurre moltissimo la possibilità di errori: perché tutto ciò non si dimostra sempre sufficiente? Ma questi invece ancora si ripetono e non solo nei casi celebri a cui da eco la stampa.

Non ho statistiche definitive, anche se nella mia esperienza personale di Pm sono corto-circuiti davvero rari (ricordo un caso in cui ero Pubblico Ministero in appello e chiesi ed ottenni l’assoluzione per un soggetto che era detenuto da oltre un anno). Ma per rari che siano è giusto che suscitino preoccupazione e indignazione perché non c’è ferita più grande alla giustizia di un innocente in carcere. Cosa fare allora? Non esistono risposte semplici. L’idea che siano tre (e non uno) i giudici che applicano la misura cautelare mi pare sposti poco e rischia anche di bloccare il sistema: spesso mi capita di dover chiedere e di ottenere misure cautelari a carico di indagati per maltrattamenti in famiglia o stalking, ma un collegio di tre sarebbe in grado di agire in tempi rapidi? E le più persone sono necessariamente garanzia di meno errori?

Leggo persino di bozze di riforma in cui si dovrebbe interrogare e contestare i fatti all’indagato prima della misura, così da vanificare per esempio totalmente la possibilità di evitare inquinamenti probatori e fughe (un meccanismo che sostanzialmente diventerebbe un incentivo per le condotte che invece le misure vogliono evitare).

Il punto credo sia invece quello di lavorare per far sollecitare la massima attenzione da parte di tutti e in particolare dei magistrati, che operando ogni giorno su centinaia di processi e migliaia di indagati rischiano di perdere lucidità in casi urgenti che sembrano uguali ad altri o di motivare involontariamente per schemi logici astratti piuttosto che sugli elementi concreti e specifici dei singoli casi. La necessità di fare tutto (l’obbligatorietà dell’azione penale) è una fondamentale garanzia del diritto di uguaglianza, ma a volte è difficile conciliarla con il bisogno di approfondire e riflettere con calma su ogni decisione, soprattutto quando le esigenze cautelari impongono scelte in tempi ragionevolmente rapidi.

In una giustizia penale più efficiente e con meno reati di cui occuparsi, otterremmo forse una qualità più alta e quindi un margine di errore sempre più basso. Però l’errore non può essere eliminato da nessuna attività umana e tanto meno da un’attività intellettuale complessa: se pretendiamo da un chirurgo di non sbagliare mai le operazioni più difficili finiremo per costringerlo semplicemente a non operare più.

Sarà importante seminare una cultura di legalità e garanzia, di dialogo con l’avvocatura e di conoscenza con il mondo del carcere, rispetto al quale troppo spesso noi magistrati ci voltiamo dall’altra parte o ci nascondiamo dietro le carte e le regole. Le misure cautelari sono una dolorosa necessità. La soluzione non è smantellarle o indebolirle ma limitare sempre di più il loro uso ai casi strettamente indispensabili (ma questo per il carcere di fatto la legge lo dice già) e lavorare tutti insieme per migliorare la qualità del lavoro giudiziario.

Anche un’opinione pubblica e una stampa più informate ed equilibrate, che non inseguono l’arresto e la notizia, possono essere un fattore positivo per far sì che i magistrati esercitino con saggezza il loro potere-dovere, non solo nella decisione sui gravi indizi, ma soprattutto nella scelta equilibrata di quale misura cautelare applicare. Assumiamoci tutti le nostre responsabilità perché le vittime siano tutelate e gli innocenti possano vedere ascoltate e riconosciute le loro ragioni. È una strada stretta e tortuosa ma ci fa progredire. Le scorciatoie non sono sicure e non ci portano nel posto giusto.

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