La storia comincia il 28 giugno 2011, quando il gruppo francese Lactalis si presenta da dominatore all’assemblea degli azionisti Parmalat e nomina un consiglio d’amministrazione a sua immagine e somiglianza. Nel giro di pochi mesi saranno tutti in tribunale, colpiti con il processo Parmalat-bis dalla maledizione di Calisto Tanzi. Tra gli eletti di quel giorno c’è Marco Reboa, “consigliere indipendente”, cioè non legato all’azionista di controllo. Sarà subito scelto come presidente del “comitato per le operazioni con parti correlate” che, in parole semplici, difende la società e i piccoli azionisti dalle eventuali prepotenze del socio forte. Che cosa sia l’indipendenza per i furbetti del capitalismo e per la ristrettissima casta dei loro consulenti lo rivela lo stesso Reboa il giorno dopo la nomina, scrivendo una salace e-mail al collega Francesco Gatti, legale di fiducia di Lactalis appena entrato nel cda Parmalat: “Già che ci sei, mi puoi mandare una copia del parere di Ferrarini, che leggo quanto ha dovuto arrampicarsi sui vetri per giustificare la mia supposta indipendenza?”. Guido Ferrarini è un insigne giurista genovese ben inserito nel circuito del potere economico, che l’ha voluto come consigliere d’amministrazione di Atlantia e di Telecom Italia. Garantisce sull’indipendenza di Reboa, e qualcuno garantisce sull’indipendenza sua.

L’indipendenza, una formalità. Gatti, consulente di Lactalis, è il tipico consigliere d’amministrazione che Reboa dovrebbe marcare stretto, e invece scherza con lui sulla propria “supposta indipendenza”, trattata come una formalità di cui farsi beffe quando sarebbe proprio ciò che separa un capitalismo moderno dalla Chicago degli anni 20. Ma nelle acque stagnanti del declinante capitalismo italiano come distinguere chi è indipendente da chi? Reboa, docente di “Diritto ed economia delle operazioni societarie straordinarie” alla libera Università Cattaneo di Castellanza (Va), è stato presidente del collegio sindacale di Buffetti, Indesit (Merloni) e Mediobanca; sindaco revisore di Comit, Autogrill (Benetton), Cir (De Benedetti), Camfin (Tronchetti); consigliere d’amministrazione di Saipem, Eni, Interpump, Luxottica (Del Vecchio), Immsi (Colaninno), Seat e Fonsai. Significativa la nomina nel board dell’allora impero Ligresti: eletto il 24 aprile 2012, si è dimesso il 3 maggio (contando feste e ponti, dopo soli quattro giorni feriali), ritenendo che “la propria attività professionale e universitaria non gli consenta di adempiere, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico, ai doveri attinenti la funzione”.

Può sembrare una divagazione per giuristi, ma il nuovo processo Parmalat – nel quale la procura di Parma ha chiesto al tribunale l’azzeramento del cda – è una svolta per il capitalismo italiano, forse più dello stesso crac da 14 miliardi di Tanzi. Per due ragioni. 1) Stiamo assistendo a una trasformazione del paesaggio criminale. Fino a qualche anno fa il reato tipico dell’imprenditore era la corruzione. Si prometteva qualcosa al politico o al pubblico ufficiale per svaligiare le casse dello Stato. Adesso che le casse pubbliche sono vuote è diventata di moda l’appropriazione indebita, articolo 646 del codice penale. È il reato di chi “per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”. È il reato del manager, ma più spesso dell’azionista di controllo, che deruba l’azienda affidatagli in base a un semplice principio gestionale: se ho il 50 per cento delle azioni di una società, derubandola di 100 euro intasco 100 euro, mentre se li lascio al loro posto resto proprietario di soli 50 euro.

È accusato di appropriazione indebita Emilio Riva, l’inquinatore di Taranto (ha anche lui soci di minoranza); c’è appropriazione indebita nello scandalo Mps e in quello più recente della Carige; è configurata dalla procura della Repubblica di Torino come una macroscopica appropriazione indebita la gestione di Fonsai della famiglia Ligresti. In quest’ultima inchiesta c’è un indagato per corruzione, l’ex presidente dell’Isvap Giancarlo Giannini, ma l’ipotesi è proprio un segno dei tempi: è accusato di aver chiuso gli occhi come authority di vigilanza proprio per consentire ai Ligresti un’appropriazione indebita più agevole. A Parma sono indagati per appropriazione indebita aggravata il presidente di Parmalat, Franco Tatò, l’amministratore delegato Yvon Guerin, il direttore generale Antonio Vanoli, e tre consiglieri d’amministrazione: Antonio Sala, plenipotenziario per l’Italia di Lactalis, più Reboa e Gatti. Quest’ultimo, notano gli inquirenti, ha avuto nel frattempo 880 mila euro di onorari dalla società proprio per le operazioni per le quali è indagato.

Il misterioso monsieur President. 2) La seconda ragione che rende storico il processo Parmalat-bis è che per la prima volta una contesa giudiziaria incentrata su accuse di malaffare vede come protagonisti solo soggetti esclusivamente stranieri, assistiti da fior di professionisti italiani. Da una parte c’è il misterioso Emmanuel Besnier, l’uomo di cui nessuno ha mai visto una fotografia, proprietario di Lactalis, gigante dei latticini francesi il cui marchio più famoso è President, quello del brie e del camembert. Dall’altra ci sono tre fondi americani, azionisti di minoranza di Parmalat: Fidelity, Gamco e Amber. Ha iniziato Amber, con un esposto alla Consob subito girato alla magistratura, a chiedere un cartellino rosso per gli amministratori di Parmalat, mettendo in crisi i nostrani cantori del libero mercato: costoro innalzano il lamento contro i magistrati che, entrando a gamba tesa sulla gestione delle aziende, renderebbero l’Italia infrequentabile per i capitali stranieri. Ma adesso non sanno come spiegare che a Parma sono stati proprio i mitici capitali stranieri a implorare i magistrati di rendere meno selvaggio il mercato finanziario italiano. La storia di Parmalat è esemplare. Lactalis si indebita per acquisirne il controllo e trova dentro l’azienda italiana 1,5 miliardi di liquidità. Le regole lasciate dal risanatore Enrico Bondi, addirittura cristallizzate nella legge, vietano di dare quei soldi agli azionisti come dividendi. Ma Besnier ha pronta la soluzione: vende a Parmalat la sua azienda americana che si chiama Lag (Lactalis American Group), e pensa di farsela pagare 1-1,2 miliardi cash, così la traslazione della liquidità da Parma a Parigi sarà cosa fatta. Ci sono però gli azionisti di minoranza, che vanno rispettati, e soprattutto la società in sé, che ha interessi ben distinti da quelli dell’azionista di maggioranza, il quale spesso se ne dimentica. Mario Cera – un altro insigne giurista che difende i colleghi dalla richiesta di revoca, anche lui con un curriculum di tutto rispetto nei consigli di Ubi Banca, Iw Bank Banca Lombarda e Piemontese, nonché come presidente del collegio sindacale di un salotto finanziario prestigioso come la Italmobiliare dei Pesenti – ha parlato chiaro al tribunale di Parma, lo scorso 2 ottobre: “È assolutamente normale che chi nomina gli amministratori in una società anche quotata si aspetti che gli amministratori facciano l’interesse della società secondo la visione che dell’interesse della società ha il socio di maggioranza”. E quindi, quando il comitato presieduto da Reboa deve chiamare un consulente terzo che prevenga eventuali furbate di Besnier, rilasciando una fairness opinion, cioè un “giudizio di congruità” sul prezzo della Lag, è direttamente il plenipotenziario Sala a contattare Mediobanca che, nella sua natura doppia di banca e società di consulenza, rilascia la fairness opinion come indipendente dopo aver finanziato Lactalis nella scalata a Parmalat.

Reboa, che di Mediobanca ha presieduto il collegio sindacale fino a pochi mesi prima, tratta amichevolmente con gli amici di Mediobanca. Secondo le tesi della Procura di Parma, hanno tutti lo stesso problema: accontentare il padrone Besnier mungendo la liquidità di Parmalat ma salvare la faccia. Il consigliere Antonio Sala preme su Mediobanca perché alzi il prezzo di Lag nella fairness opinion. Cioè Parmalat preme per pagare più cara possibile l’azienda che deve comprare. I tecnici di Mediobanca non vorrebbero mettere la loro firma sotto una valutazione fantasiosa, ma il milione di euro della consulenza non è da buttare. La sequenza ricostruita dal pm Lucia Russo è degna del miglior vaudeville . Il 16 aprile 2012 Mediobanca dice che Lag vale tra 590 e 680 milioni di dollari. L’uomo diMediobanca a Parigi, Marc Vincent, si rivolge al numero uno Alberto Nagel manifestando stupore perché Sala e Reboa continuano a spingere per un prezzo più alto. Nagel gli scrive il 29 aprile: “Marc, sono un po’ preoccupato dei valori della transazione che state trattando con Besnier (anche se Mediobanca sarebbe il consulente indipendente dei consiglieri indipendenti, ndr). Amber potrebbe essere veramente aggressiva, io vorrei aver il loro consenso preventivo”. Altro che consenso preventivo, Amber andrà dritta filata a denunciarli. Nel frattempo Mediobanca si arrende. Il 2 maggio la fairness opinion sale a una forchetta tra 719 a 827 milioni di dollari. Il 3 maggio Alberto Rosati di Mediobanca scrive al collega Clemente Rebecchini: “Ho cercato di massaggiare Reboa sulle valutazioni e (in parte) ci sono riuscito. Il problema è ovviamente Sala”. Problema evidentemente non risolto, perché Lag sarà pagata 904 milioni di dollari, il 40 per cento in più del valore intermedio della forchetta iniziale di Mediobanca. Ma gli uomini di Nagel dichiarano il 22 maggio: “È nostra opinione che, alla data odierna, l’operazione prospettata sia d’interesse per Parmalat e che il corrispettivo sia da ritenersi congruo dal punto di vista finanziario sulla base delle valutazioni effettuate secondo criteri consolidati ”.

150 milioni mancano ancora all’appello. La primavera scorsa un primo intervento del Tribunale di Parma ha portato all’esclusione di Sala dal consiglio d’amministrazione e di Reboa dal comitato per le operazioni con parte correlate, alla sostituzione di due sindaci revisori, e alla nomina di un commissario che ha pilotato la Parmalat verso la ricontrattazione del prezzo di Lag, sceso da 904 a 774 milioni di dollari. Adesso, secondo il pm e il commissario Angelo Manaresi, il prezzo è ancora eccessivo per 150 milioni, ma il cda di Parmalat non chiede soldi indietro, essendo focalizzato sulla difesa del proprio operato piuttosto che sugli interessi dell’azienda. Per questo è stato chiesto l’azzeramento. “Non vi possono essere dubbi sul fatto che questo cda non assumerà alcuna iniziativa per porre rimedio al gravissimo danno arrecato a Parmalat con l’operazione in discussione”, ha detto la pm Russo nell’udienza del 1 ottobre scorso. Il giudice dovrà dire se sono in maggior pericolo le libertà d’impresa, attaccate dalle procure, o le regole del mercato, attaccate dai furbetti del latticino.

da Il Fatto Quotidiano del 6 novembre 2013

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