Qualche settimana fa ero in un liceo scientifico della Lombardia, per parlare di libri e di storie italiane. Riesco, talvolta, a parlare di quello che successe a Marcinelle, in Belgio, l’8 agosto del 1956. Un incendio a 975 metri sottoterra. 262 morti, 136 dei quali immigrati italiani. Disorganizzazione, assenza di misure protettive. Le viscere della terra. È una vicenda che spesso i ragazzi non conoscono, e in alcuni casi anche le insegnanti.

In questo caso, l’insegnante – una donna sui cinquanta, evidentemente amante di colori sgargianti, sia per cosmesi che per abbigliamento – intervenne curiosa e disse: «Ma ci dica, Andrea, e cosa consiglia per approfondire?».

Un libro. La catastròfa di Paolo Di Stefano (Sellerio). L’epopea, fatta di calli e ferite, della nostra emigrazione.

La catastròfa è, a mio parere, uno dei libri più belli e più importanti usciti negli ultimi anni. È uscito nel 2011, ed è un mosaico di voci di superstiti, in un linguaggio puro, questo dialetto frammisto a francese, questo coro di memoria fatta di polvere e carbone, di volti intrisi di fiamme e di pensieri zuccherini, lievi, tanto è amaro quello che hanno visto, quegli occhi rossi, irrorati di sangue e di lune sempre più spente.

Piove su Marcinelle, anche in agosto. Così inizia Paolo Di Stefano. Ma quel giorno no: «La ricordano come una delle più limpide giornate di sole che Dio avesse mai mandato sul distretto minerario di Charleroi. Ma il cielo azzurro durò pochissimo, un paio d’ore, forse. Perché verso le otto del mattino l’azzurro cominciò a oscurarsi, nuvole di fumo denso salivano dai pozzi».

Succede sempre così. Le nuvole, sempre, sono messaggere della Storia: portano le tenebre e sussurrano, borbottano. Complottano contro la terra. Qualcosa di tremendo sta per accadere.

Parlano in tanti, tantissimi in questo libro. Si pensi a Vincenzo, 82, anni, un superstite: «Quando sei sotto nel pozzo ti dici: l’acqua e il fuoco non perdonano, puoi morire annegato o asfissiato, ma è un pensiero generale che non ci credi davvero. Eppure noi li sentivamo i vecchi che dicevano sempre in miniera sai quando scendi ma non sai se rimonti. Poi però, quando sei sotto nel pozzo, c’è un’amicizia che ti fa pensare che sei forte (…). Dici siamo tutti qua nello stesso inferno e se non succede niente, un pezzo di pane ce lo mangiamo insieme. Anche il giorno dopo, quando siamo andati al campo, come si chiamava il posto della catastròfa, non ci potevamo credere che tutti erano morti, c’era tanta gente, i bambini e le donne che piangevano ma noi non immaginavamo il peggio, pensavamo, avevamo l’idea che un giorno o l’altro uscivano quasi tutti dalla terra. (…) Al paese aspettavano sempre il mio ritorno, ma io pensavo: qui c’è il fuoco, là in Italia c’è solo l’acqua. L’acqua, per annegarsi».

Ho parlato di questo libro, e di questa storia, e i ragazzi erano affascinati. Hanno fatto delle domande, anche, e non è sempre facile. Ho detto: «Perché non lo leggete, anche in classe?».

«Eh, sa, Andrea» ha detto l’insegnante. «Non abbiamo proprio tempo. Stiamo leggendo il libro di Fabio Volo».

«Bene, ragazzi, allora leggetelo a casa. O almeno: lontano dalla scuola».

La mattinata è finita. Prima di andare via mi sono ricordato di aver visto un bel documentario, Memorie dal profondo, girato da alcuni ragazzi del terzo liceo, l’artistico di Via Ripetta, Roma.

 

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Ho consigliato all’insegnante di mostrarlo, nei giorni successivi, agli studenti. Sono andato via: baci, abbracci, e foto di gruppo. Sul treno, mi è arrivato un sms.

Era la prof: «Grazie di tutto Andrea. Mi chiedevo ma quel documentario, mica è in bianco e nero!? :)».

Chiudeva così, con la faccina sorridente.

Mi sono chiesto se fosse una battuta. Poi ho chiuso gli occhi e ho dormito, fino a Milano.

P.s. Si precisa che questa vicenda, ambientata in una scuola italiana, è realmente accaduta. Alcun dettaglio di fantasia è stato aggiunto.

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