L’antropologo Renè Girard insegna che l’aggravamento di una crisi determina il disinteresse per le vere cause che l’hanno determinata.

Nella crisi gli individui attuano una traslazione della responsabilità, la allontanano da se stessi per riversarla sulla società nel suo complesso, allontando il senso di colpa individuale.

Questo meccanismo agisce sul piano sociale anche in un’altra maniera: individua un gruppo da caricare di negatività.

I “ tipi” sospetti vengono accusati di crimini a vario titolo, identificati in una minoranza visibile, additata quale demolitrice di consolidati tabù.

Alla fine si arriva alla convinzione che un gruppo relativamente piccolo di persone possa essere responsabile di un grande problema sociale, malgrado l’evidente sproporzione tra l’entità del problema e il numero degli accusati pretesi responsabili.

La società, con un meccanismo semplificato, scarica la propria rabbia e  frustrazione senza mettersi in discussione.

La prova che le persone accusate abbiano realmente commesso il crimine è irrilevante, importa la credenza nei loro confronti: sono colpevoli a prescindere dall’accertamento della responsabilità, che non viene nemmeno cercato.

Le vittime della persecuzione, naturamente, devono essere esposte a subirla. «Le minoranze etniche o religiose – scrive Girard – tendono a polarizzare contro di sé le maggioranze. (…) Non c’è quasi società che non sottometta le proprie minoranze, i propri gruppi mal integrati, o anche semplicemente distinti, a certe forme di discriminazione se non di persecuzione.»

Oggi gli avvocati sono il capro espiatorio del fallimento della macchina della giustizia e la loro parabola sembra seguire perfettamente questo schema.

Sono un gruppo sociale malvisto, hanno pessima stampa e non riescono a far passare le proprie ragioni attraverso i mass media neanche a livello di comunicazione istituzionale.

Sono un organismo frantumato, ad onta di numerosi appelli e sproloqui all’unità. Esiste al loro interno una rigida divisione di classe: i piccoli sparsi sul territorio in balìa delle onde, mentre i grandi sono organizzati in lobbies trasversali e grandi studi. I grandi sono attivi, dominanti, organizzati e garantiti anche dal monopolio della rappresentanza in seno ai vari organismi elettivi. I piccoli subiscono, arretrano e non riescono a compattarsi, vittime del forte individualismo ne ottenebra la capacità reattiva.

C’è una massa critica di giovani avvocati cottimisti retribuiti con salari da precari (quando va bene), al servizio dei colleghi che catalizzano incarichi e prebende, quantomeno non solo per merito. I meschini non si ribellano: pensano sciaguratamente di poter sopravvivere senza organizzarsi con l’illusione di entrare prima o poi nel “giro buono” di una società totalmente impermeabile alla promozione sociale. Non ho trovato altra spiegazione a questo atteggiamento che l’appagarsi dell’illusione di un ruolo di primazia sociale estinto da qualche decennio e/o la semplice disperazione. 

Un esempio di questa passività lo si è visto in occasione della prima introduzione della mediazione obbligatoria con la massiccia iscrizione ai corsi di formazione per mediatori, gestiti in larga parte da lobbies partecipate da colleghi e da organismi costituiti ad hoc.

In nome di questo miraggio tanti giovani hanno speso le ultime risorse senza avere alcuna chance di guadagno. Chi sceglie un mediatore giovane che non faccia parte di uno studio, associazione o gruppo organizzato? Speriamo che con la reintroduzione dell’istituto, palesemente incostituzionale e spinto da lobbies agguerrite, il fenomeno non si ripeta.

Intanto, i mali della giustizia avanzano.

Il primo è la corruzione. Un paese corrotto non può avere un sistema giudiziario efficiente (sarabanda della prescrizione, leggi ad hoc, ad personam, resistenze alla normativa europea anticorruzione etc).   

Il secondo è l’incapacità dei legislatori di fare norme.

Ormai quello che si chiamava il corpus legislativo per dare un’idea di macchina in armonioso funzionamento è martoriato, snaturato, sventrato da un continuo lavorìo episodico, settoriale, asistematico, concepito con la fretta dell’emergenza quando va bene, dell’affarismo e della propaganda quando va male.

Le leggi sono fatte male. Un esempio Art. 63 Disp. Att. Cod. Civ. (Testo post riforma come sostituito dall’art. 18, comma 1, L. 11 dicembre 2012, n. 220):…..I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini. “Significa per caso reintroduzione della “responsabilità solidale” per i debiti condominiali, malgrado le Sezioni Unite della Cassazione ancora nel 2008 avessero sancito, per dovere di giustizia, la natura parziaria delle stesse? Cioè sia pure in seconda battuta, dei debiti del condomino risponde il condominio?

Il terzo è lo scarso controllo sugli apparati, primo tra tutti la magistratura. Un esempio: la giurisdizione che potrebbe definirsi “impropriamente domestica”. Quanti magistrati esercitano le loro funzioni nel contesto sociale dove hanno casa famiglia amici interessi? Come tutto ciò si riverbera nell’esercizio dei tantissimi poteri discrezionali, nella nomina dei consulenti, nell’influenza spesa nelle nomine dei magistrati onorari? Per non dire dei magistrati c.d. fuori ruolo (doppio stipendio e dentro/fuori tra tribunali e ministeri). Speriamo che il nuovo reclutamento di giudici aggregati ( idea vecchia e già male attuata) previsto dall’ennesima riforma della riforma non sia svolto con gli stessi sistemi.

Scendendo per li rami: sono veramente sconosciute certe prassi in uso presso taluni ufficiali giudiziari? 

Ad ogni riforma si dà un contentino ai notai, che entrano sempre più pesantemente negli ingranaggi giudiziari. Ne risulta maggiore efficienza?

In una decina d’anni è quadruplicato il costo della giustizia. Dove finiscono queste risorse? Si assume personale amministrativo? Chi se non gli avvocati si trasformano di commessi, cancellieri facchini…volenterosi carnefici di se stessi. Chi ha dubbi esca integro da una cancelleria in prossimità dell’orario di chiusura.

Gli avvocati, è vero, sono corresponsabili del loro proprio sfascio: alcuni perché compartecipi, altri perché imbelli e proni.

Essi sono anche il terminale ultimo del malessere sociale conseguente allo sfascio della giustizia: ne sopportano la pressione, lo regolano, a torto o a ragione ne assumono l’impopolarità, ne calmano la pulsione all’illegalità, suppliscono al fallimento del potere legislativo “ne cives ad arma ruant”. Per quanto, ancora?

Le toghe pagano sull’ara sacrificale, come capro espiatorio.

Basterà a distrarre la gente dalle conseguenze materiali del naufragio del sistema giustizia?

All’esito prevedibile dell’ennesima riforma qualche altro capo rotolerà nel cesto, finalmente.

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