A poco più di 48 ore dalla morte della Dama di Ferro, Margareth Thatcher è di nuovo al centro di una polemica infuocata che ricorda quelle degli anni Ottanta. Per completare il singolare déjà-vu politico mancano soltanto gli slogan dei minatori del Galles o la freddezza degli aristocratici e della famiglia reale di fronte alla figlia primo ministro di un ortolano. Da viva, come da defunta, questa donna eccezionale polarizza l’opinione pubblica con un’intensità quasi violenta. Ronald Reagan, paladino dei Chicago Boys, è morto senza riaccendere negli animi sentimenti di antipatia altrettanto profonda. Perché?

Il fatto che la Thatcher fosse donna non ha un gran peso. Sicuramente l’idea che a ridisegnare il rapporto tra stato e nazione, tra governo e mercato, fosse una donna ha dato fastidio a molti, ma alla radice del risentimento che tanti europei ancora nutrono per la Dama di Ferro c’è qualcosa di ben più complesso. Maggie Thatcher era una guerriera, non aveva paura di nessuno, soprattutto non temeva di essere impopolare. E come sappiamo i politici vorrebbero tutti essere dei piacioni, e Reagan sicuramente lo era; solo i grandi leader, come Churchill, possono permettersi di essere antipatici.

Eletta alla fine del winter of discontent, un inverno caratterizzato da back-out, scioperi selvaggi e proteste di piazza, la Thatcher si rimboccò le maniche e si mise al lavoro con la lena ed il pragmatismo del grande leader. A differenza della stragrande maggioranza dei colleghi, aveva un’idea ben precisa su come risolvere i gravi problemi del paese. Chi scrive non la condivideva, ma l’ha sempre rispettata per l’originalità e l’innovazione che la caratterizzarono. Per attuare questa ‘visione’ la Thatcher s’inimicò gran parte dell’establishment, inclusa una grossa fetta del proprio partito, uomini grigi che cercarono con tattiche meschine ed universalmente conosciute, di bloccare le sue riforme. Ma la Dama di Ferro non se ne curò e fu eletta ben tre volte, segno che il popolo approvava le sue riforme; come leader non venne mai sconfitta alle urne ma cacciata in malo modo nel 1990 dal suo stesso partito, che in fondo non l’aveva mai amata.

Da allora le si attribuiscono tutti i mali dell’economia e della finanza britannica ed occidentale, ingabbiate, come molti scrivono, in un paradigma da lei disegnato. Margareth Thatcher è dunque il capro espiatorio di un sistema che non funziona più da almeno vent’anni, da quando lei stessa ha lasciato la scena politica. Facile e conveniente quest’accusa, ma altrettanto falsa. Come ha scritto il Financial Times la Thatcher in undici anni di governo ha reinserito la Gran Bretagna, una nazione sul viale del tramonto economico, nella rosa dei paesi che contano, regalandole un tasso di crescita superiore a quello di molte altre nazioni occidentali. E lo ha fatto scardinando il rapporto tra stato e cittadino, dando vita ad una rivoluzione sociale, politica ed economica di cui il paese aveva un disperato bisogno. Rivoluzione, paradigma e modello Thatcheriani appartengono agli anni Ottanta, non all’eternità.

Da allora, nessuno è stato in grado di contrapporre una visione diversa della politica e dell’economia, anche se nel frattempo il mondo ha subìto la più grande trasformazione dai tempi della Rivoluzione industriale. E’ vero, siamo prigionieri del paradigma thatcheriano, una formula nata in un’economia non globalizzata, che oggi non ha più senso e che a tratti appare anacronista. Ma il nostro carceriere non è la Dama di Ferro, piuttosto sono gli uomini grigi della politica, i maghi della finanza, gli intellettuali asserviti al potere, i piacioni della globalizzazione, che dai tempi della Thatcher non sono stati capaci di sostituire il vecchio con un nuovo paradigma, un sistema moderno, fatto a misura del presente, come fece Margareth Thatcher a partire dal 1979.

C’è solo da augurarsi che dal marasma attuale emerga, come fu all’indomani del winter of discontent, un politico della statura della Thatcher, qualcuno in grado di aprire con la stessa forza e convinzione quelle sbarre che ci separano dalla modernità del presente.

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