Roma può essere considerata, anche dal punto di vista strettamente statistico, la capitale ‘morale’ della gattofilia. Dato il prestigio e la storia della città “eterna”, una microstoria del gatto non sembra del tutto inutile. Quello tra l’uomo e il gatto è infatti un dialogo antichissimo, confermato anche da scoperte archeologiche molto recenti. Per esempio, nel 1983, l’archeologo francese Alain Le Brun, nell’insediamento neolitico di Khirokitia, nella zona meridionale dell’isola di Cipro, ha trovato sepolto accanto allo scheletro di un bambino quello di un piccolo gatto. Un ritrovamento che rivela la straordinaria corrispondenza affettiva che, sin dalle epoche più remote, legò l’uomo al gatto.

Il gatto fu venerato dalla civiltà egizia, che gli attribuì perfino il volto di una dea, Bastet, raffigurata con il corpo di donna e la testa di gatto e congiunta al culto di Iside, dea della notte e della luna. Avvenne la stessa cosa presso i romani, mentre, con l’avvento del cristianesimo la gattofilia subì una battuta d’arresto. Molte antiche divinità e molti animali furono trasformati in demoni e, fra questi, il gatto nero cessò di venire considerato sacro per diventare un essere diabolico, maligno, pericoloso e, perfino, portatore di sventura. Il Medioevo è stato il periodo più difficile per i gatti, che in alcune circostanze si ritrovarono sul rogo insieme alle streghe.

Con il Rinascimento, con i grandi viaggi e le scoperte di nuovi mondi, furono conosciute anche nuove razze, rendendo il dialogo gatto-uomo ancora più complesso. Il gatto cominciò ad assumere anche un valore estetico: molto spesso le razze più pregiate, i Persiani dal lungo pelo, i Siamesi o i Birmani dovettero affrontare viaggi molto pesanti solo per essere ammirati e vezzeggiati presso le corti europee. Questo sodalizio secolare ha promosso una pubblicistica molto diffusa che cerca di scoprire una lingua universale, una sorta di “esperanto gattesco”. Di consueto questi volumi hanno il limite di rendere troppo contigua al linguaggio verbale la comunicazione con i nostri amici felini. Sfugge, almeno in parte, a questa “tentazione”, il recentissimo “manuale” di Monica Cirinnà e Lilli Garrone, “L’alfabeto del gatto. Come comunicare con il tuo migliore amico e amarlo sempre di più” (Newton editori, Roma 2012). Le autrici si rendono perfettamente conto che mentre noi ci esprimiamo con le parole e i toni, i gatti, invece, comunicano tramite lo sguardo, il miagolio, la coda, le orecchie e le fusa.

Si tratta esattamente dello stesso problema che è stato posto, in maniera consapevole, da intellettuali, come Eduard Hanslick e Helmuth Plessner, che hanno considerato alcuni linguaggi, come la musica, “intraducibili”, o meglio non riducibili allo schema del linguaggio verbale. Per il linguaggio gattesco e per il linguaggio della musica valgono esattamente le stesse ipotesi: sono dotati di un’espressività dinamica immediata, strettamente imparentata con la gestualità. Una volta emancipata la dimensione espressiva, comune alla musica e al linguaggio gattesco, dal ricatto semiologico ossia dal primato del logos, diventa semplice capire la soluzione. Così è avvenuto per negli scritti dedicati all’ermeneutica dei linguaggi non-verbali di Helmuth Plessner. Rovesciando il problema, a noi interessa piuttosto chiedere: come è possibile comprendere quell’espressione così intensa rappresentata dalla musica e dal linguaggio gattesco, non riducibile al linguaggio verbale?

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