pesca del tonnoArriveremo mai a percepire il pesce selvatico come oggi percepiamo le balene ovvero come specie da proteggere e non come cibo? È questo il quesito che ho posto al Dott. Marco Costantini, responsabile del Programma Mare del WWF in occasione dell’incontro “Pesca selvaggia e allevamento intensivo” che si è tenuto a Milano giovedi 27 settembre, presso lo spazio Chiamamilano. Fino al 1986, anno in cui è scattato il divieto di pesca commerciale alla balena, questo cetaceo veniva cacciato e utilizzato abitualmente non solo come cibo ma anche per usarne il grasso in molti preparati oltre che come combustibile.

Solo due generazioni fa se ci avessero detto che nel giro di un decennio avremmo smesso di pescare e consumare le balene ci sarebbe sembrato impossibile, eppure è successo grazie al divieto di pesca da un lato ed efficaci campagne di sensibilizzazione dall’altro. Anche se c’erano diverse lobby contrarie alla fine ha vinto il buon senso e la volontà di proteggere questi cetacei da un’estinzione certa. Probabilmente questo processo è stato reso più facile dal fatto che le balene sono mammiferi e quindi le percepiamo più vicine a noi almeno evolutivamente.

Perché invece tanta insensibilità verso altre specie sovrasfruttate come ad esempio salmone, tonno, merluzzo, cernia bruna, pesce spada, scorfano, solo per citarne alcune? Perché il pesce non ci suscita nessuna simpatia a differenza di altri animali, perché ad esempio tanti che smettono di mangiare la carne consumano comunque il pesce?

Come racconta il Dott. Costantini, la maggior parte della sofferenza provata dal pesce avviene sott’acqua, lontana dai nostri occhi e quando questo viene tirato fuori dall’acqua è ormai stremato e in fin di vita. Se da un lato tanti nutrizionisti ci dicono che dovremmo mangiare più pesce dall’altro ci sono tante associazioni non solo ambientaliste (WWF, Greenpeace, Ocean2012, Slowfood, Legambiente, ecc.) che ci dicono invece di limitarne il consumo e soprattutto di prestare molta attenzione alle specie che acquistiamo oltre alla provenienza, alla tecnica di pesca, alla taglia del pesce e alla stagione. C’è ad esempio un video realizzato da Ocean2012 (coalizione di organizzazioni per la difesa del mare) che in meno di 5 minuti sintetizza alla perfezione il cuore del problema legato alla sovrappesca e all’allevamento ittico: “Fermate il sovrasfruttamento”.

Una delle principali difficoltà nel fare diminuire la domanda da parte dei consumatori di prodotti ittici è l’assenza di sostituti sostenibili.

L’attuale pressione di pesca non è infatti sostenibile nel lungo termine per nessuna specie tanto che l’industria della pesca continua a cercare alternative mano a mano che alcuni stock ittici raggiungono il collasso commerciale. Un classico esempio è  il merluzzo atlantico, dopo la forte riduzione degli esemplari, e quindi del pescato, il mercato si è rivolto verso il merlano dell’Alaska e ora è che anche il merlano è in serie difficoltà si continua a cercare alternative. È questo che fa ad esempio una nota associazione MSC (Marine Stewardship Council) che rilascia certificazioni di pesca sostenibile, ma su cui Paul Greenberg autore di “Four Fish” (Slowfood Editore, 2012) solleva alcune perplessità visto che tra i fondatori c’è Unilever e che di rado riesce nell’intento di protezione degli stock di pesce di cui certifica la pesca sostenibile. Nonostante questo, secondo alcuni studi indipendenti, MSC rimane ad oggi la migliore certificazione di pesca sostenibile.

Ma quanto contano le scelte dei singoli consumatori in un sistema così complesso dove ognuno dice la sua, ma è difficile sapere con esattezza le reali condizioni degli stock ittici, almeno fino a quando non li avremo pescati tutti?

Secondo la FAO siamo ai massimi storici nel consumo di pesce e tale dato è in aumento. La maggior parte dei consumi si concentra poi su 4 specie: merluzzo, tonno, salmone e branzino (questi ultimi due principalmente da allevamento). Da un lato ci sono gli stock ittici sovrasfruttati, dall’altro gli allevamenti fortemente inquinanti a causa di residui di antibiotici, mangimi (almeno il 10% del mangime somministrato rimane nell’acqua) e deiezioni.

Quali sono quindi le scelte ideali da fare per i consumatori? La prima sicuramente è quella di ridurre il consumo di pesce, la seconda di privilegiare specie erbivore o almeno in basso nella catena alimentare. Acquistare solo pesce della taglia giusta ovvero solo dopo che sia riuscito a riprodursi e nella stagione giusta. Esistono diverse guide in proposito, disponibili su internet, che  è possibile consultare per fare scelte più consapevoli, ad esempio “Che pesci pigliare” del WWF o “Mangiamoli giusti” di Slowfood.

Ma al di là delle scelte individuali dobbiamo pretendere ben strutturate politiche a livello nazionale, europeo e mondiale per gestire questo problema in modo efficace.

In questa direzione va ad esempio la petizione promossa dal WWF rivolta al Presidente e ai membri del Parlamento Europeo per riscrivere la politica comune per la gestione della pesca in modo che sia più efficace nella protezione delle risorse ittiche, oppure possiamo continuare così e mangiarceli fino all’ultimo.

(Foto Lapresse)

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