La febbre dei social network o meglio l’epidemia delle relazioni virtuali rischiano davvero di farci ammalare? L’infinita gamma di possibilità interattive oggi squadernate dalla rete intensifica o viceversa ottunde la nostra recettività agli stimoli del mondo esterno? L’entusiasmo e la positività espresse in proposito dal sociologo Domenico De Masi, intervenuto di recente al forum promosso dal Fondaco di Chioggia su “Tecnologia e rapporti umani nell’era di Facebook“, lo rendono ipso facto una voce fuori dal coro.

«Paragonerei l’invenzione del web a quella della scrittura o della stampa –esordisce il professore– interpretandola come una nuova tappa evolutiva nell’ambito del rapporto tra produzione e fruizione della cultura. In origine i contenuti della comunicazione culturale erano infatti elaborati da pochi e destinati a pochi, come avveniva ad esempio ai tempi di Mozart, che componeva musica sublime per principi, nobili e ristrette élites. Poi, con l’avvento del cinema e della televisione, siamo arrivati ad una cultura distribuita dai pochi ai molti, per giungere infine, ai nostri giorni, ai molti che interagiscono con i molti: chiunque può redigere on-line una voce di Wikipedia su un tema che lo appassiona. Il che non implica necessariamente un impoverimento qualitativo dei contenuti, poiché anche una persona poco colta può essere straordinariamente informata su un certo singolo argomento».

Come valutare allora, dal punto di vista di un sociologo del lavoro, l’orientamento alquanto restrittivo di tutte quelle aziende i cui dipendenti subiscono addirittura il divieto di connettersi a Facebook durante l’orario di ufficio?

«Lo considero un tipico esempio di miopia ed ottusità delle imprese odierne –risponde tranchant De Masi– Nei secoli scorsi, ovvero nell”800 e ‘900, gli imprenditori erano all’avanguardia e sapevano trarre profitto dalle novità. Oggi comprimere l’enorme potenziale di strumenti così evoluti invece di finalizzarli alla riuscita delle proprie attività significa essere autolesionisti».

Eppure c’è chi ventila perfino il rischio di psicopatologie o disordini mentali indotti dall’assuefazione e dall’autoisolamento di individui che, alla maniera di certi adolescenti nerd giapponesi ipertecnologizzati, vivono ormai abbarbicati al computer della propria stanzetta senza mai uscirne. «Se è per questo anche Proust conduceva una vita del genere –sorride il professore– se qualcuno è incline all’asocialità e preferisce chiudersi al mondo, può farlo indipendentemente dalla tecnologia. Anzi, il computer e internet gli consentono semmai di attenuare la sua solitudine».

E, da noto teorico del concetto di ozio creativo, De Masi non nutre proprio alcun dubbio circa le valenze virtuose del virtuale: «Facebook incarna per sua natura il senso intimo dell’ozio creativo –dichiara il sociologo– poiché tende a sintetizzare studio, lavoro e dimensione ludica in un continuum». Ciononostante, proprio dalle pagine di Repubblica di qualche giorno fa, la semiologa Julia Kristeva puntava il dito contro l’ipersemplificazione e la mancanza di profondità che possono talvolta affliggere le relazioni umane intrecciate nell’era del web. Nessun rischio in tal senso? I vantaggi riescono sempre a compensare largamente ogni possibile limite del mezzo? «Direi proprio di sì –annuisce convinto il professore– Basti pensare che anche ai tempi in cui si comunicava soltanto per lettera gli interlocutori erano lontani nello spazio e nel tempo: oggi invece grazie a Skype possono perfino guardarsi negli occhi. Consideriamo poi quanto possa essere sapientemente allusivo e denso di sottintesi un semplice sms, grazie al suo obbligo di sintesi: altro che superficialità! La verità è che certi pregiudizi sono totalmente infondati, poiché non è certo Facebook che potrà impedirci di incontrare un amico al bar o di avere rapporti sessuali con qualcuno che amiamo».

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