Ci sono 100 giorni esatti tra oggi e il 6 novembre, l’Election Day negli Stati Uniti. Eppure, l’ora della scelta per la Casa Bianca appare lontanissima, sul calendario e nell’interesse dei media nazionali e internazionali. Conclusasi in aprile la competizione per la ‘nomination’ repubblicana, l’attenzione è calata. In Europa, c’è la crisi dell’euro; in Medio Oriente, c’è la repressione dell’insurrezione in Siria; e, ora, c’è l’estate e ci sono pure i Giochi di Londra, a distrarre giornali e opinione pubblica.

Eppure, la partita a due tra il presidente uscente Barack Obama, democratico, primo nero alla Casa Bianca, e lo sfidante repubblicano Mitt Romney, mormone, moderato, appare, a questo punto, molto più incerta di quanto non si pensasse: Obama resta favorito, ma è vulnerabile.

Proprio una sua ‘grande elettrice’, quell’Europa che, però, non depone schede nelle urne, è divenuta negli ultimi mesi il maggiore handicap del presidente Obama: dopo avere ‘importato’ dall’America la crisi del 2008, l’Europa fatica a innescare la crescita e compromette, con i suoi modesti risultati, anche la ripresa americana, che pure è stata nella prima metà del 2012 un po’ migliore del previsto. Ma i tassi di disoccupazione restano nettamente superiori alla soglia di rielezione dei presidenti del passato: siamo all’8,2% e non dovrebbe scendere di molto di qui alla fine dell’anno, se proprio va bene al 7,9%.

I sondaggi più affidabili continuano ad attribuire al presidente un vantaggio sullo sfidante, statisticamente poco rilevante, ma costante. Però il margine si va riducendo, ma mano che la fiducia nel presidente si erode su dossier decisivi, in particolare sulla sua capacità di rilanciare l’economia. Secondo gli analisti più accreditati, Obama conserva due possibilità su tre di essere confermato, soprattutto perché è avanti nella dozzina di Stati in bilico che detengono le chiavi del successo – Florida, Ohio e Pennsylvania sono i più delicati -. Dalla parte di Romney, c’è invece la massa di denaro che i grandi gruppi e la finanza stanno facendo confluire nelle sue casse, armandolo per la fase più intensa della campagna.

Che, a –100 dal D-Day, conosce una fase di stanca. E’ normale che sia così: questo tra luglio e agosto è periodo di vacanza e di rallentamento dell’attività anche negli Usa. E la competizione si sposta fuori dal territorio nazionale: si guarda alla visita di Romney in Israele, che diventa una sorta di spot in un Paese alleato, ma il cui governo non s’è mai inteso con l’amministrazione Obama.

O si accendono fiammate nella scia della cronaca, come il dibattito, destinato a scemare, sul controllo delle armi dopo la strage di Batman a Denver. Oppure si intrecciano chiacchiere e anticipazioni su chi saranno i ‘team mates’ dei due candidati, se Obama farà ancora ticket con Joe Biden o cambiera squadra e punterà, eventualmente, al ‘dream team’ con Hillary Clinton; e se Romney si metterà al fianco un numero due complementare –ultra-conservatore?, donna?, nero?, o ispanico?-.

Le luci sulla campagna torneranno ad accendersi con le conventions, a cavallo tra fine agosto e inizio settembre –a Tampa, i repubblicani; a Charlotte, i democratici- e, poi, ci saranno i dibattiti, tre fra i candidati presidente e uno fra i loro vice, in Colorado, a New York, in Florida e Kentucky.  Sempre nell’attesa, o nella speranza, a seconda di come si mettono le cose, di quella sorpresa d’ottobre che tutti aspettano sempre e che non arriva quasi mai.

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