Crollano le borse, trascinate al ribasso dalla sempre più concreta ipotesi di elezioni in Grecia, e crolla soprattutto la fiducia sulle prospettive di soluzione della crisi debitoria europea. Alla chiusura delle contrattazioni, tutte le principali piazze continentali registrano il segno meno: Milano chiude gli scambi sotto del 2,74%, Madrid cede il 2,66 Parigi il 2,29, Berlino l’1,94% e l’Europa brucia 120 miliardi. Peggio di tutti, ovviamente, fa Atene dove l’indice generale perde il 4,56% mentre quello dei titoli bancari cede lo 0,86%. La tensione si evidenzia anche sul fronte della finanza pubblica: i decennali italiani rendono il 5,69% sul mercato secondario contro il 6,21% degli spagnoli. La corsa al lido sicuro del bund tedesco spinge i rendimenti di Berlino ai minimi storici facendo così aumentare lo spread con le periferie: il differenziale con i titoli italiani sfonda ampiamente il muro dei 400 punti (423), quello calcolato sui bonos centra quota 475. La sensazione, insomma, è particolarmente forte e decisamente preoccupante.

Non siamo ancora al panico conclamato, certo, ma la paura di un collasso generale inizia a farsi strada. Il ministro delle finanze belga, Didier Reynders, citato oggi dal Telegraph, è stato piuttosto chiaro: l’uscita della Grecia dall’euro, con il suo inevitabile effetto contagio sui mercati europei, sarebbe “una catastrofe”. Ieri, sulle colonne del New York Times premio Nobel Paul Krugman era stato ancora più esplicito delineando le tappe del tracollo: uscita della Grecia dall’eurozona entro il mese prossimo, fuga dei capitali dalle banche italiane e spagnole verso la Germania (e dove se no?) e doppia ipotesi di intervento tramite l’imposizione di limiti ai trasferimenti bancari oppure una nuova iniezione da parte della Bce. A quel punto, spiega Krugman, i casi sono due: o la Germania ripensa alla sua politica di gestione della crisi (e a quel tabù antinflazionistico che limita da sempre la manovra dell’Eurotower) oppure si arriva al capolinea della moneta unica. Un esito spaventoso che coinvolgerebbe inevitabilmente Italia e Spagna e che, potremmo aggiungere, sarebbe certamente anticipato da una colossale ondata speculativa.

Ad innescare quest’ultima potrebbero essere ancora una volta le agenzie di rating. In caso di congedo greco, Fitch ha già fatto sapere di essere pronta a declassare massicciamente buona parte delle economie dell’eurozona. Il che significa che i rendimenti dei titoli periferici potrebbero impennarsi, i traguardi del fiscal compact allontanarsi e le borse deprimersi correggendo nuovamente al ribasso i minimi dello scorso anno (per l’Italia ormai ci siamo). Davvero l’Europa vuole rischiare questo scenario? Il 7 febbraio scorso, nello spazio di qualche ora, il presidente della Commissione Ue Barroso e la sua collega all’agenda digitale Neelie Kroes riuscirono nell’impresa di rilasciare due dichiarazioni di segno opposto. Il primo ribadì la necessità di tenersi stretta la Grecia per evitare conseguenze peggiori, la seconda ci tenne a ricordare che anche in caso di addio da parte di Atene la struttura euro non sarebbe collassata. Da allora, quell’incredibile combinazione di dichiarazioni evidentemente non concordate è diventata il simbolo della divisione politica europea. Oggi, il tema del dibattito è sempre lo stesso e la questione è soprattutto aritmetica. Costerebbe di più mantenere in vita l’euro ad Atene o sarebbe più dispendioso frenare il panico dei mercati che si scatenerebbe sul resto di Eurolandia una volta che la Grecia dovesse defilarsi? I contribuenti tedeschi, che domenica hanno inflitto una sonora sconfitta elettorale ad Angela Merkel e alla Cdu, in non sembrano avere dubbi. E forse, con il loro voto, hanno chiarito definitivamente le idee anche alla Cancelliera. Dopo le anticipazioni del weekend, intanto, oggi anche il settimanale Der Spiegel ha scaricato definitivamente Atene suggerendone l’uscita dall’euro in quello che sembra a tutti gli effetti un manifesto della linea tedesca.

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