Oggi intervisto Andrea Staid, autore di Le nostre braccia (Agenzia X, Milano, 2011). Staid, storico e antropologo, 30 anni, è autore de Gli arditi del popolo (La fiaccola, 2007) e fra i curatori di A cerchiata (Elèuthera, 2008). In questo libro Staid decostruisce il modello multiculturale anche attraverso interviste a lavoratori migranti: muratori, badanti, manovali, contadini e attivisti politici. Insomma le fila dei nuovi schiavi.

Partiamo dalla domanda che fai all’inizio dell’introduzione: «Chi sono “loro” chi siamo noi”»?»
L’identità è un problema fondamentale nella vita dell’uomo, tutti ci chiediamo chi siamo noi, chi sono gli altri e perché. Nel mio libro è proprio questo dualismo che ho cercato di decostruire, come scrive Claude Lévi-Strauss, il noi è solo apparente dobbiamo vederlo come un ponte da attraversare. Per l’antropologia il noi non è conclusivo e non può essere definitivo, non deve separare noi dagli altri, ma essere il tentativo coraggioso di collocare noi in mezzo agli altri, alle loro culture, alle loro forme di vita e di saggezza. Dobbiamo cercare di costruire reti di connessioni mediante cui riflettere sulle opacità del noi e sulle capacità che abbiamo di aprirci una strada verso gli altri. Il problema della comprensione dell’altro è un fatto che riguarda l’interpretazione dell’alterità; l’identità ha bisogno, si nutre e si fonda rispetto all’alterità nella sua auto ed etero definizione.

Ma allora che cosa intendi con «un antirazzismo che sia meticcio»?
Per antirazzismo meticcio intendo le lotte per uguali diritti nel rispetto delle differenti culture, percorsi da condividere fra uomini e donne delle etnie più diverse. Bisogna avere il coraggio di creare identità mutevoli, in transito, aperte al cambiamento. Per questo il titolo del libro è le nostre braccia e non le loro!

Tu sostieni che ogni società e cultura è fin dall’inizio meticciata. Eppure è opinione consolidata che originariamente la cultura, le credenze, la religione di un popolo nascano in forma autonoma viste le scarsissime relazioni che ci sono fra i popoli dell’antichità. Come fai a sostenere questa tesi?
Sicuramente nella società post-moderna è molto più facile capire il meticciato, il cosiddetto fenomeno di globalizzazione ha portato con sé diversi mutamenti, non solo sul piano economico, politico, ma anche e soprattutto per ciò che concerne l’aspetto sociale e culturale. Grazie alla mobilità internazionale e quindi alle maggiori possibilità di raggiungere in poco tempo parti diverse del globo e grazie alla naturale propensione dell’uomo a viaggiare con il proprio inseparabile bagaglio culturale, oggi le nostre società sono sempre più, comunità meticce. I panorami sociali, etnici, culturali, politici, ed economici si fanno sempre più confusi e sovrapposti, le linee di confine spezzettate e irregolari. Detto questo, non concordo che le relazioni tra i popoli dell’antichità fossero scarsissime. Da sempre la storia umana è fatta di mescolanze, di culture che migrano, cambiano, che si ibridano. La storia del Mediterraneo è un crogiolo culturale, è la storia di millenni di migrazioni, sotto forma di invasioni, conquiste, scontri, persecuzioni, massacri, saccheggi e deportazioni, ma anche di scambi, confronti, trasformazioni reciproche di popoli, persino durante i conflitti. La differenza, rispetto al passato, è che oggi il fenomeno della «mescolanza» ha assunto proporzioni planetarie. L’accelerazione e l’espansione dei flussi migratori ha come effetto la globalizzazione degli incontri-scontri tra le culture. Questo richiede uno sforzo di analisi, dal momento che rappresenta la congiuntura epocale che determina la specificità dei processi di meticciato con cui oggi abbiamo a che fare.

Torniamo al presente. Come si può pensare al meticciato se anche fra «migranti sistemati» e «migranti precari» si instaurano relazioni di forte sfruttamento?
Per costruire la mia ricerca sono partito da una constatazione : i migranti sono umani al di là delle appartenenze, quindi mi stupirebbe se non si creasse sfruttamento tra di loro. È proprio pensarli come qualcosa di diverso da «noi» che crea il razzismo. La domanda che dovremmo porci è perché ci stupiamo se si creano reti di dominio tra migranti e non ci stupiamo di secoli di relazioni di domino nella nostra società?

Chiudiamo con l’interrogativo che poni alla fine del tuo libro: «Quale futuro?»
La mia speranza è quella di un mondo che sappia accogliere, ascoltare e capire le differenze e che tali differenze culturali diventino la ricchezza della società. Non dobbiamo assolutizzare mai l’identità culturale, ma fare in modo che le proprie diverse espressioni identitarie siano filtrate alla luce della libertà e dell’autonomia propria e di ogni altro essere umano. Prefigurare dunque un mondo aperto, senza muri e pregiudizi, pronto al mescolamento culturale per un divenire quel luogo dove l’unica patria sia il mondo intero, con al suo interno una miriade di culture differenti pronte al cambiamento, all’ascolto e all’incontro. La creazione di una relazione sociale tesa a soddisfare un’esigenza, un interesse, dove sia importante accettare di trasformarsi nell’interazione egualitaria con gli altri e prevedere la possibilità di diventare una persona anche molto differente da quella originaria. Un mondo di eguali per diritti ma differenti per culture, una società di donne e uomini liberi di creare la loro specificità culturale.

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