C’è un video che sta girando in internet durante questo 8 marzo 2012 che merita una considerazione particolare: un estratto Rai delle riprese del primo processo per stupro trasmesso dalla televisione italiana nel 1979.

Nelle testimonianze e nelle voci che si alternano nel filmato ci sono due Italie e due modi di essere socialmente donna: da un lato c’è quello della donna che è tale secondo il “dominio maschile” assoluto dei padri padroni, dei fratelli coproprietari, dei vitelloni e dei playboy alla matriciana, dall’altra c’è la donna che è tale secondo se stessa, secondo la sua volontà, le sue aspirazione, la sua differenza e la sua intelligenza.

Quel processo fu un evento rivoluzionario nell’immaginario sociale italiano, senza se senza ma. Fu una di quelle fratture che fanno bene a un popolo perché fanno pensare, discutere e ragionare insieme. Se il movimento dei neri americani ricorda epicamente Rosa Parks che si rifiutò di lasciare il proprio posto sull’autobus a un bianco, una nuova cultura di genere in Italia dovrebbe ricordare allo stesso modo quel processo. Come il punto di non ritorno di un modo di essere maschi tutto all’insegna della forza.

In quelle immagini in bianco e nero c’è un passaggio di civiltà e per questo va custodito. È quasi commovente, a più di trentanni di distanza, vedere quella che sarebbe diventata poi “l’avvocato delle donne” per eccellenza, Tina Lagostena Bassi, smontare con asciuttezza e determinazione le illogiche argomentazioni del difensore degli stupratori che trovavano fondatezza e coerenza solo nella peggiore mentalità maschilista.

L’idea di mandare in onda sulla Tv di Stato un evento del genere fu, al momento, una scelta di grandissima intelligenza. E fu un’intuizione delle donne. E come riporta Wikipedia “L’idea di documentare un processo per stupro nacque in seguito ad un Convegno Internazionale femminista sulla “Violenza contro le donne”, tenutosi nell’aprile del 1978 nella Casa delle donne in via del Governo vecchio, a Roma. In quel convegno emerse che ovunque nel mondo, quando aveva luogo un processo per stupro, la vittima si trasformava in imputata. Loredana Rotondo, programmista alla Rai, propose a Massimo Fichera, allora direttore di Raidue, di filmare un processo per stupro in Italia. Il documentario “Processo per stupro”, registrato al Tribunale di Latina, diretto da Loredana Dordi, fu seguito da nove milioni di telespettatori. Con il titolo inglese “A Trial for Rape” fu presentato al festival di Berlino, insignito del Prix Italia for documentaries e ricevette una nomination all’International Emmy Award. Se ne conserva oggi una copia al Moma di New York”

Era il 1979, entrando in un tribunale la Tv italiana aveva la pretesa di svolgere una funzione civilizzatrice del paese veicolando modelli culturali capaci di aprire spazi di libertà alle singole persone, e in parte ci riusciva.

Oggi, in tempi di videocrazia e donne farfalline e veline, sarebbe forse il caso che per difendere i diritti delle donne e un sano equilibrio tra i generi, portassimo questa volta la televisione e i media davanti al tribunale, ma quello della ragione. Come si va dal gommista quando c’è bisogno della convergenza, come si va dal meccanico quando il motore va fuori fase. (Le metafore volutamente maschili sono calibrate sui destinatari).

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