E’ il giorno dello swap, il giorno dell’accordo (si spera), quello dell’ultimo, decisivo, conto alla rovescia. Due anni di agonia e vari mesi di trattativa più tardi, la Grecia tenta oggi di finalizzare l’intesa con i creditori privati chiamati, entro le 21 di oggi, a comunicare la propria scelta definitiva. Anche se, in assenza di alternative credibili, parlare di scelta è probabilmente sbagliato. La speranza, ovviamente, è che tutto vada per il meglio e che il Paese possa ripartire in quel lungo e complicato processo di ripresa di cui la ristrutturazione debitoria resta condizione fondamentale seppure non sufficiente. Ma i dubbi restano e l’attesa si fa pesante.

Le certezze, per ora, sono solo due. La prima è la dimensione delle perdite imposte ai creditori. L’offerta di Atene prevede lo scambio (o swap) dei vecchi titoli ormai non più liquidabili con nuove obbligazioni a valore ridotto e a scadenza differita: alla fine dei conti, insomma, i detentori dei bond ellenici (Bce esclusa) perderebbero il 75% consentendo al debito greco di ridursi di colpo di 100 miliardi di euro. La seconda è la conclamata insolvenza di Atene: nelle casse dello Stato non ci sono più soldi per onorare i prestiti, il che significa prendere o lasciare visto che un recupero pieno della somma investita è ormai impraticabile.

Il punto, ora, è capire se sarà tecnicamente possibile arrivare a questa situazione. E qui le cose diventano complesse visto che per il momento restano da chiarire troppi particolari. Riassumendo: l’ipotesi generale è che l’operazione potrà filare liscia qualora l’adesione al concambio dei titoli raggiunga il 90%. In pratica, in questo caso, l’accordo viene giudicato volontario e si può procedere in automatico. Cosa accada a chi rifiuta non è però chiaro: qualcuno ipotizza che lo scambio verrebbe esteso anche al 10% dissidente, ma c’è chi dice che questi ultimi potrebbero ritrovarsi, non si sa come, ad ottenere un rimborso pieno o addirittura nulla. I dubbi non mancano nemmeno a proposito della determinazione della cosiddetta soglia critica entro la quale sarebbe possibile fare scattare la Cac, ovvero la clausola di azione collettiva con la quale la Grecia potrebbe imporre di sua iniziativa la perdita ai creditori che rifiutano l’accordo. Da tempo si parla del 75% ma anche qui le idee non sono chiare. L’ex consulente del governo e attuale docente alla Leonard Stern School of Business di New York Nicholas Economides confermava ancora l’altro ieri l’ipotesi del 66,66%. Come a dire che se ad accettare sono i 2/3 dei creditori “le clausole possono essere imposte”.

Interpellato sulla questione nella giornata di martedì, Economides si mostrava ottimista affermando che la soglia dei 2/3 “molto probabilmente dovrebbe essere raggiunta dal momento che molti creditori fanno parte dell’Institute for International Finance (la lobby cui aderiscono istituti come Bnp, Deutsche Bank e Allianz e che ha dato il proprio assenso alla scambio sulle obbligazioni – ndr) mentre altri sono costituiti da banche greche o da fondi pensioni controllati dal governo”. Non tutti però sembrano concordare su questa previsione. Secondo il quotidiano Daily Telegraph, ad oggi, il via libera all’accordo sarebbe stato sottoscritto da meno della metà dei creditori.

A complicare ulteriormente il quadro c’è poi un nuovo e finora sottovalutato particolare. I bond in circolazione, infatti, non sono per così dire tutti uguali. In molti casi si ha a che fare con obbligazioni “di diritto greco” nelle quali le clausole di azione collettiva sono previste da contratto, ma non mancano i bond di diritto britannico che, a quanto pare, garantirebbero maggiore protezione ai loro possessori. Negli ultimi tempi, i fondi speculativi se li stanno accaparrando nella speranza di ottenere un trattamento migliore in caso di concambio. Secondo il Wall Street Journal, le obbligazioni greche in salsa inglese in scadenza il 15 maggio e il 20 giugno sono scambiate oggi rispettivamente a 81 e 69 euro (su un valore nominale di 100) contro i 25 euro che caratterizzano i bond di diritto ellenico in scadenza ad agosto. Per molti analisti si tratta di un’operazione rischiosa ma a quanto segnala il mercato, evidentemente, il comparto dei fondi sembra pronto a scommettere. Il peso dei titoli greci di diritto straniero, tanto per cambiare, non è noto con certezza. JP Morgan, citata dallo stesso Wsj, ipotizza che questi ultimi compensino meno dell’11% del totale del debito greco. Secondo il Financial Times rappresenterebbero il 14% del debito ellenico in mano al settore privato (che ammonta a 206 miliardi di euro).

L’ultima questione aperta, infine, resta quella relativa ai Cds, i derivati assicurativi che dovrebbero essere liquidati in caso di default. L’Isda, l’ente che ne regola il mercato, ha affermato la scorsa settimana che la ristrutturazione greca ha carattere volontario e come tale non implica il pagamento dei contratti derivati a protezione dei crediti. Non è però da escludere che in caso di percentuale di adesione inferiore alle attese (già, ma quale?) la situazione possa successivamente cambiare. Nel frattempo, la speculazione ormai conclamata su questi titoli conosce una nuova accelerazione: i Cds sulla Grecia, che una settimana fa valevano meno di 8 mila punti base sono saliti, secondo l’ultima rilevazione della società di monitoraggio Cma Vision, alla quota di 27.239 punti. Come a dire 27,2 milioni di euro per assicurare 10 milioni di credito. L’ennesimo controsenso di questa interminabile vicenda ellenica.

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