Mentre l’Europa precipita nella crisi finanziaria, con la Germania e la Francia che fanno la parte delle sorellastre in una moderna Cenerentola dei mercati (in cui le Cenerentole sarebbero due, Grecia e Italia al momento), ci siamo dimenticati delle recenti elezioni in Tunisia. Vorrei farvi alcuni accenni, e poi vorrei raccontarvi delle proteste londinesi di St. Paul.

In Tunisia, il suicidio di un giovanissimo venditore di frutta è stata la scintilla che ha illuminato il mondo arabo e ne ha iniziato la Primavera. Due settimane fa il 90 per cento dei tunisini si sono recati alle urne, orgogliosi e commossi per questa esperienza di democrazia.

È presto per giudicare cosa avverrà, ma di una cosa sono certa: la vittoria di Ennahda, il partito messo al bando come terrorista dal regime di Zine el-Abidine Ali, marca chiaramente l’Islam politico come entità con cui non solo convivere, ma anche dialogare se, come io credo, si vuole sostenere il processo di democratizzazione del mondo arabo.

La cosa che mi ha colpito è che le donne tunisine emancipate, quelle stile parigino per intenderci (ho parlato con alcune di loro a Parigi qualche settimana fa) vedono Ennahda come una minaccia. Loro, così come i critici del partito, accusano Ennahda di ‘doppio standard’, di usare cioè un linguaggio dei diritti affine alla cultura occidentale in certe occasioni, per poi perseguire un’agenda conservatrice lontano dalle telecamere.

La realtà è che Ennahda ha parlato al cuore della gente.

Nel breve spazio che ho vorrei dire due cose. La prima riguarda le donne, la seconda invece riguarda l’Islam politico.

La Tunisia ha recentemente approvato una legge avanzatissima in materia di parità, che impone ai partiti politici di rispettare la quota del 50% nei candidati. Ennahda ha candidato ed eletto tantissime donne, che spesso si sono avvicinate alla politica attraverso i soprusi vissuti negli anni della dittatura. Difficile trovare una donna tunisina che non abbia memoria di un padre, un fratello o un figlio finiti nella violenza del regime.

Queste donne hanno scoperto il valore della politica, e se ne sono appropriate. Certo, la vera domanda in sospeso è come Ennahda governerà, e se il suo islamismo potrà fondersi con il femminismo e portare progresso e crescita. Questo resta da vedere, ma quel che è certo è che le donne elette e le dirigenti del partito sono fermamente convinte che femminismo e islamismo possano andare a braccetto, e sono determinate a perseguire parità e uguaglianza in senso moderno.

Credo che la sfida reale per la Tunisia sia di trovare un equilibrio tra l’eredità culturale e filosofica francese sui diritti civili, da un lato, e dall’altro le domande di religiosità provenienti dal popolo. Un equilibrio è certamente possibile, come dimostra la Turchia di Erdogan.

E questo è appunto il secondo elemento che vorrei portare: Turchia e Tunisia rappresentano un modello importante, essenziale per capire la matrice islamica di una evoluzione democratica del mondo arabo. Certo, tensioni vi sono e vi saranno, come per esempio in Egitto, dove la situazione è molto diversa per le donne (il Consiglio supremo delle forze armate ha vietato alle donne la guida di ogni lista elettorale).

Ma confido molto nelle forza progressista dell’Islam politico, né secolare né islamista.

D’altro canto, come ha detto il teorico islamico Gannouchi (co-fondatore di Ennahda) in un recente dibattito televisivo, rispondendo ad una critica di stampo secolare: se lo spettro dell’Islam va da Bin Laden a Erdogan, allora quale è l’Islam? E ha ragione da vendere: Turchia, Indonesia e Tunisia sono modelli in cui Islam e modernità vanno di pari passo, da non confondere con i talebani o l’Arabia Saudita: confonderli, oltre che sbagliato, è pericoloso.

Il futuro è da vedere, e di sicuro da monitorare.

Tornando in Europa, qualche giorno fa sono andata alla Cattedrale di St. Paul, dove la protesta di Occupy London continua imperterrita, nonostante le minacce di sfratto da parte della corporazione della City of London. Gli occupanti hanno organizzato un campo, con tende, una cucina, una libreria e una università.

Io ho molta simpatia per questa protesta. E mi sento di concordare pienamente con questa critica al capitalismo predatorio. Non credo sia compito di una protesta l’elaborazione di una soluzione dettagliata; questo spetta invece al coraggio, alla forza e al diverso ruolo di una forza politica. Sono però estremamente grata a questo movimento, che sta portando all’apice dell’agenda politica la necessità di riforma dell’economia.

Infatti Ed Miliband ha appena scritto un articolo sullo stesso tema, che mi sento di condividere appieno. Credo che in Gran Bretagna, così come nel resto d’Europa, possa essere proprio questa la piattaforma di un nuovo progressismo.

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