Sono quarant’anni oggi dalla scomparsa di Jimi Hendrix. Posto nella mia bacheca fb la prima di sette puntate di un documentario inglese in cui si insinua l’ipo/tesi dell’assassinio politico, dovuta al coinvolgimento di Hendrix con i Black Panthers. Puntuale mi ribatte un ragazzo di vent’anni, Gianfranco, orientamento centro-destra / cattolico-cristiano, scrivendo: “non mettiamo la politica ovunque per favore”.

Mi dico, ecco un fan che consuma la musica al livello basic senza alcun desiderio o pretesa di approfondire. Ma qualcosa nella calma piatta delle sue parole mi irrita. Riapro in ordine sparso i files dei miei quindici anni vissuti e “celebrati” in pieno ’68: Dylan, “Volunteers” dei Jefferson Airplane, il primo “Human Be-In” a San Francisco, le battaglie per i diritti civili in America, i disordini razziali di Watts cantati da Zappa in “Trouble Every Day”, “Revolution” dei Beatles, “If Six Was Nine” e “Machine Gun” di Hendrix, i primi moti studenteschi, il massacro di Kent State, le sequenze iniziali di “Zabriskie Point” di Antonioni, film come “If” di Lindsay Anderson, “The Strawberry Statement” e “Easy Rider”, l’idealismo di “Hair”, la bandiera americana bruciata dai Nice di Keith Emerson in pieno Vietnam, Angela Davis.

Mi limito però a replicare che “le vicende dei più grandi artisti neri degli anni Cinquanta e Sessanta – Stevie Wonder, Otis Redding, Marvin Gaye, Staple Singers, Aretha Franklin, solo per citarne alcuni in cui mi sento di includere anche Cassius Clay/Muhammad Ali – “grondano” politica. Basta leggere la storia dell’America di quegli anni per capirlo. Non porta lontano far finta di nulla per concentrarsi sul vinile che gira”.

Gianfranco ribatte: “Sì, però a me personalmente interessa poco se si sia trattato o no di assassinio politico. Preferisco ascoltare la sua chitarra che non incentrarmi su problemi secondari”. La sua risposta potrebbe non fare un plissè, se non fosse che quel “problemi secondari” mi risulta così disturbante da spingermi a insistere nel rispondergli: “Padrone di farlo, ma quelli che chiami problemi secondari sono forse il motivo per cui da quarant’anni possiamo solo ascoltare i suoi dischi e non vederlo più dal vivo”.

La cosa potrebbe chiudersi qui, come molti ping-pong sul web. E invece no. Si scatenano le reazioni degli “amici”. Qualcuno gli augura un lapidario “Buon sonno”, altri gli chiedono conto se deve considerarsi “un problema secondario anche la progettazione della Cia di far sparire tutti gli eventuali ‘disturbatori’ della Grande America”. E poi secondari a che cosa, mi chiedo io?

Mi rendo conto che, a questo punto, è come se stessi parlando a mio figlio, o ad un suo amico coetaneo. Un perfetto rappresentante della “new generation”, se mai questa definizione può avere una chance di attendibilità. Allora mi ci incaponisco e voglio vederci più chiaro, se possibile. La discussione, com’è prevedibile (almeno per me), esce dall’ambito strettamente musicale. Vedo una piattezza di lettura in Gianfranco, un’insensibilità di fondo, un rifiuto di capire/accogliere la realtà, che sono una voragine dello spirito prim’ancora che dell’intelletto. Un deficit di formazione, o di istruzione. Vorrei lo stesso provocare un sussulto, un qualunque moto di reazione. Scrivo un altro post mentre fioccano nuovi commenti: “Che significato possono avere per lui (Gianfranco) Kent State, la convenzione di Chicago, l’assassinio di Martin Luther King, per non dire dei fratelli Kennedy e di Malcolm X, Woodstock e Altamont, l’Era d’Acquario, il Vietnam, Nixon e il Watergate, ecc….? Aggiungo anche la Beat Generation che Gianfranco include nelle sue preferenze. Non c’è nessun male a non avere approfondito tutto questo e a non volerlo fare, ma liquidare come “problemi secondari” mali che hanno afflitto e continuano ad affliggere anche il nostro Paese, e non solo l’America, non è prova di intelligenza, mi dispiace. Forse se lo stesso fosse accaduto a De André, non la penserebbe allo stesso modo”.

Gianfranco sottolinea di sapere bene cosa siano stati la Beat Generation e i suoi ideali, ma rivendica il suo diritto di “ascoltare i capolavori di Hendrix piuttosto che cercare di capire qualcosa che nessuno riuscirà mai a scoprire… Penso che ci siano problemi ben più gravi e primari (della morte di Hendrix e della sua dinamica) da risolvere per questa nostra generazione”.

Mi s’insinua un senso di scoramento che s’accompagna al logorio delle parole e ad un evidente disallineamento intellettuale con Gianfranco. Mi schianta il grado di anestesia totalizzante che lo paralizza, ma scelgo lo stesso di scrivere un nuovo, ultimativo post, pur conscio dei limiti del mezzo fb, dell’evidente disinteresse di Gianfranco e dell’irrilevanza, per lui, delle mie parole: “Molti dei cosiddetti “misteri” relativi ai fatti più tragici della storia più recente (puoi immaginare a cosa posso riferirmi) rimarranno tali, d’accordo. Ma capire la loro dinamica, gli scenari in cui si sono compiuti, le persone o le “entità” che hanno giocato un ruolo determinante nella dinamica di cui sopra, può aiutarti a capire a che razza di mondo appartieni e a come riuscire a sopravvivere, soprattutto psicologicamente. La mia generazione ha fatto quello che ha potuto, nel bene e, purtroppo, nel male. Hai vent’anni e l’anagrafe stabilisce (purtroppo per te) che sia tu a doverti fare il culo per raddrizzare i casini che ti lasciamo in eredità. Allora benedici ogni spiraglio che può avvicinarti a scoprire anche solo una frazione di verità, e continua pure ad ascoltare la musica immortale di Hendrix. Una cosa non esclude l’altra. al contrario, è stata proprio la musica ad aprirci gli occhi su molte cose, spesso dolorose”.

Gianfranco chiude con un “Bel discorso..davvero..solo che non penso che fra i casini da risolvere ‘con urgenza’ lasciatici in eredità ci sia la morte di Hendrix come caso politico…tutto qua…”. Li sento tutti questi quarant’anni, da quel lontano-vicino18 settembre 1970, in cui la mia fidanzata dell’epoca mi telefonò e col tatto degli imbecilli mi snocciolò la ferale notizia: “Sai quel tuo amico, Jimi Hendrix?… È morto”. La stessa “purple haze”, la foschia rosso porpora di Jimi, che di colpo calò sui quattro anni di musica più fulminante che io abbia mai ascoltato, pare ora stendersi come un sudario sugli orizzonti di questo ventenne e forse su una parte (auspicabilmente modesta) della sua generazione. Benvenuto nel mondo moderno, mi dico una volta di più. Il Grande Sonno è qui.

Articolo Precedente

Alla faccia del trombone

next
Articolo Successivo

Effetto placebo su Berlusconi

next